2004 settembre 19 L’unità nazionale mai messa in dubbio

2004 settembre 19 – L’unità nazionale mai messa in dubbio
Il centrosinistra ebbe il pudore di non usare mai il termine federale o federalista nella sua riforma; il
centrodestra ha fatto sua la devolution di Umberto Bossi, pur limata, patteggiata, emendata ed
emendabile. Di questo si deve parlare lasciando per un momento in santa pace il federalismo con la F
maiuscola. Nella confusione generale, il cui record di imbattibilità va al centrosinistra in Parlamento e
fuori, sopravvive l’equivoco dell’«unità» d’Italia. Calma e gesso, qui l’unità non c’entra niente, è fuori
tema, manca all’appello. La stessa riforma del «Senato federale» risulta da una vita, nero su bianco, nei
programmi elettorali tanto della Lega e a ruota di Berlusconi, come della nascente Margherita e dei ds.
Non per nulla il diessino di gran lunga più competente e coraggioso in materia, cioè l’ex ministro
Franco Bassanini, ha definito (vedi il «Corriere») «un punto pacifico» questa evoluzione del Senato
repubblicano. E giovedì scorso al primo voto alla Camera dei deputati, gran parte dell’opposizione l’ha
accolta con l’astensione, non all’urlo di qui si fa l’Italia o si muore. L’«unità» pu dormire sonni
tranquilli; da anni e anni è finalmente uscita dall’ordine del giorno, almeno da quando la grottesca idea
della secessione padana svanì nel niente che era con le due mitiche monete sbandierate per il Nord e
per il Sud proprio mentre l’euro stava sopprimendo persino la lira A ripensare a quei tempi non si sa se
piangere o ridere sulla bizzarria della politica. La tragicommedia unità-secessione ha oltretutto
provocato un vistoso boomerang soltanto per l’onorevole Bossi. Il concetto di «unità» ne uscì meno
retorico, dunque più comprensibile; il secessionismo alienò al leader lumbard il consenso dei federalisti
moderati fino al milione e mezzo circa di voti rimasti ora alla Lega Nord. Il presidente Ciampi fa il suo
mestiere costituzionale raccomandando tante cose di buon senso a un ceto politico privo di ogni
barlume ideale. Ma adesso il richiamo all’«unità nazionale» rischia addirittura di essere ricevuto come
un rito al quale dire in coro sì ma ritualmente. «Totale sintonia» fotografava un titolo della
«Repubblica», così totale da destra a sinistra da sembrare appunto convenzionale, interessatamente
quirinalizia, puro galateo. A mio modesto parere si annuncia anzi una fase avversa al decentramento o
che, nella migliore delle ipotesi, lo garantirà in molto modica quantità. Tanti segnali annunciano alla
grande il progressivo ritorno all’accentramento del potere, favorito da un sacco di fattori anche
internazionali. L’Europa parla più che mai fra Stati e questi, pur rendendo comuni un po’ di cose, si
muovono sempre e solo da Stati sovrani guidati soprattutto da interessi nazionali. L’Europa si fonda
sugli Stati, gli Stati usano l’Europa secondo vecchia Realpolitik di bandiera. Per ora funziona così; il
terrorismo islamico ha fatto il resto. Obbliga gli Stati da un lato a integrarsi nella raccolta di
informazioni dall’altro ad accentrarsi nelle misure di sicurezza. La sicurezza vuole più Stato, più
ministero degli Interni, più controllo unificato del territorio. La stessa devoluzione paga pedaggio. Con
l’attuale riforma alcune importanti competenze tornano allo Stato per «interesse nazionale» e il potere
del premier alla Berlusconi si rafforza di molto. Forse per disillusione verso i vari federalismi del tipo
pezo el tacon del sbrego, affiora qua e là un robusto ritorno del centro.
Per discutere di immigrazione, gli enti locali invocano «un tavolo nazionale» e perfino le università,
vecchie vestali dell’autonomia, pregano ora in ginocchio di cancellare i concorsi locali per ripristinare
il bando unico nazionale. Anche le Regioni a statuto speciale e le Province autonome hanno in pratica
detto: patti chiari e amicizia lunga con la devoluzione, che non deve toccare la nostra autonomia
garantita dallo Stato italiano quando il regionalismo era ancora tutto e solo sulla carta. L’altro ieri il
presidente della Provincia di Bolzano, quel personaggio unico che è Luis Durnwalder, ha incontrato a
Vienna il ministro degli Esteri austriaco perché sia chiaro che l’autonomia dell’Alto Adige/Sudtirolo è
affare di Stato o meglio tra Stati, Italia e Austria, in cui la devoluzione non deve metter lingua. Il

Senato federale sarebbe previsto fra sette anni; il federalismo fiscale fra dieci. Nel frattempo, lo Stato
burocratico obeso di leggi, nemico pubblico numero uno delle imprese, avrà probabilmente ancora più
potere al centro e più contenzioso sul territorio con gli enti locali. Le riforme portatili, a scadenza come
il latte a seconda delle maggioranze del momento, sono riuscite nel miracolo di oscurare
nell’immaginario collettivo anche il federalismo che quello Stato puntava a rendere moderno, coerente
con chi lavora e produce benessere. Il motto dell’Italia è: speriamo che me la cavo. Che altro?
19 settembre 2004