2002 settembre 15 Bossi il veneziano

2002 Settembre 15 – Bossi il veneziano

L’on.Umberto Bossi fa il veneziano per la settima volta, ma quello di oggi non è nemmeno lontano
parente del Bossi 1996. Allora, l’ampolla del dio Po conteneva la nitroglicerina della secessione
della sua Padania celtica; adesso, custodisce una tisana di governo nazionale.
Il leader barbaro della Lega dura e pura ha paradossalmente ceduto il posto al titolare del ministero
più istituzionale che si possa immaginare, quello per le Riforme; la lotta per mandare a casa Roma e
l’Euro è approdata infine a una rassicurante “lotta per il cambiamento” dell’Italia. La vecchia lotta
popolana al sistema è consolidata politica padana nel sistema, nonostante il linguaggio al massimo
dei giri che sempre precede e accompagna le mobilitazioni del popolo di Pontida e/o di Venezia.
L’ultimissimo bersaglio è fatto ora di “democristianoni”, di “vescovoni” e di “pretoni”. Con i primi
attacca i post- Dc della sua maggioranza di centrodestra; nei secondi e nei terzi identifica i portatori
d’acqua santa dell’opposizione di centrosinistra. Così facendo, Bossi si smarca in un colpo solo da
entrambi gli schieramenti; ricupera nell’immaginario leghista un qualche spazio vitale di autonomia
e non archivia del tutto la doppia originaria anima “di lotta e di governo”.
E’ questo il suo schema sull’immigrazione, che per il Bossi 2002 non rappresenta più un problema
ma la madre di tutti i rebus, dalla sicurezza all’identità, dal lavoro all’Islam, dalla globalizzazione
alla società multietnica, dal consenso elettorale agli equilibri nella coalizione di Silvio Berlusconi.
Sull’immigrazione Bossi punta tanto, se non tutto.
Ha firmato la legge in comproprietà con l’on. Fini cercandosi fama celodurista sul flussi d’ingresso;
ma teme di giocarsela tutta con una regolarizzazione da 250 mila immigrati in un colpo solo.
Ministro o non ministro, Bossi ha l’ossessione di finire nella grande risacca dei condoni e delle
sanatorie che fino all’altro ieri considerava il peggio della cosiddetta prima repubblica e degli
oramai mitici catto-comunisti. Il fatto è che la Lega Nord, scesa al 4 per 100, non può permettersi il
lusso finale di consegnarsi mani e piedi al moderatismo parlamentare contro il quale nacque: come
il sindacato e come la sinistra, anche Bossi ha bisogno di una sua piazza in qualche modo
antagonista.
Lui fa di mestiere l’antagonista governativo, e questo é tutto.
A mio parere, Bossi non potrà fare il bis del 1994, cioè un secondo ribaltone a spese di Berlusconi
nemmeno se passasse la sanatoria allargata dei democristianoni. Non può né vuole.
Finirebbe con l’andare proprio contro imprenditori, artigiani, aziende di servizio, partite Iva, un
“popolo” elettoralmente anche suo. Si metterebbe contro tutto quel mondo che a partire dal Nordest
ha bisogno come il pane di lavoratori extracomunitari in regola, tendenzialmente a tempo
indeterminato, in grado di mettere su onestamente casa e famiglia lasciando alle spalle la
clandestinità e sventando sul nascere ogni tentazione illegale.
Se voleva legare l’immigrazione al lavoro, Bossi l’occasione ce l’ha soltanto ora, subito, sul tavolo
della legge: chi già lavora ,e da clandestino non ha commesso il minino reato, è un extracomunitario
ideale, collaudato, non da espellere ma sul quale semmai investire. Se insomma boccia questo
criterio, Bossi boccia non la caritatevole Caritas ma se stesso, il suo slogan lavoro & legalità.
Ma poi è passato un secolo dal fatidico 14 novembre del 1994. Quella sera in un appartamento della
periferia romana, “roba da operai” diceva lui, Bossi servì sardine e pan carré con birra e Coca Cola
a D’Alema e Buttiglione. C’entravano le pensioni, non l’immigrazione, e alla fine dello spuntino
proletario il primo governo Berlusconi non aveva più la maggioranza.
Nel libro da qualche giorno in libreria, proprio D’Alema ricorda tutto per bene. Anche perché la
Lega gli sembrasse “una costola del movimento operaio” e perché Bossi avesse conquistato non a
caso un milione di voti operai o sindacalizzati.
Nulla è più uguale, nemmeno vagamente somigliante, nemmeno Bossi che con il ribaltone perse
dalla mattina alla sera un terzo dei suoi parlmentari. Rischia molto meno a fare, con il sillabario
padano di lotta, il comodo antagonista di governo.
A ciascuno il suo. D’Alema ha i suoi girotondi; Bossi farà il perpetuo girotondo di Berlusconi.