1991 marzo 1 Vincere la pace

Bush e gli altri

Testata: GAZZETTINO
Edizione: PG
Pagina: 1
Data: 01/03/1991
Autore: GIORGIO LAGO
Tipo:
Argomento: IRAQ, KUWAIT
Persone: HUSSEIN SADDAM – POLITICO IRAQ, BUSH GEORGE – EX PRESIDENTE USA
Didascalia:
Descrizione:
Titolo: VINCERE LA PACE. All’esame dell’Onu le pesanti responsabilità di Saddam.

Fondo del Direttore

di Giorgio Lago

Il primo a dire che Saddam Hussein l’avrebbe pagata fino in fondo fu George Bush qualche giorno
dopo l’invasione del Kuwait. È cronologicamente coerente che sia stato Bush in persona a decretare la
fine della guerra. Dal punto di vista militare, la Santa Alleanza dell’Onu ha ottenuto il cento per cento
degli obiettivi: liberazione del Kuwait; disfatta dell’Iraq; clamorosa esiguità delle perdite; poco più di
200 tra morti, dispersi e prigionieri. Anche se non è ancora riuscito a far la pelle a Saddam, Bush
raccoglie non per nulla il consenso popolare degli Stati Uniti. Attraverso l’umiliazione dell’Iraq
«quarta potenza militare al mondo» il Presidente ha guarito gli Usa dal complesso del Vietnam. Né il
crollo del comunismo, né la fine del Patto di Varsavia sono minimamente comparabili al senso di
potenza che la guerra nel Golfo ha restituito alle tre della notte scorsa all’America. Fa bene il New
York Times quando evoca la psicanalisi nel decifrare l’irrazionalità di Saddam Hussein, ma per
completare il giudizio occorrerà probabilmente scandagliare più a fondo la psicologia di massa che
attraversa in questo epocale momento il mondo arabo e islamico, con le sue immense ricchezze e le sue
spropositate depressioni. Non si spiega altrimenti il disordine diplomatico delle ultime 100 ore del
regime di Bagdad; le stesse 100 ore della guerra lampo terrestre che hanno consentito agli alleati di
azzerare o quasi le forze armate irachene, con un massacro di proporzioni bibliche. Centomila vittime
in 100 ore: un’enormità se si pensa che le stime più attendibili contano in 130 mila morti le perdite
irachene degli interi otto anni di guerra con l’Iran. Resterà negli annali l’assenza di realismo di Saddam
Hussein. Colpisce altrettanto, e forse di più, la paralisi politica in quel bunker di Bagdad. Un’intera

oligarchia accecata nel sottosuolo, un apparato poliziesco di prim’ordine in grado di sventare qualsiasi
resa dei conti interna. Fosse dipeso tutto da Saddam, dell’Iraq non sarebbe rimasto che pietra su pietra.
A decidere la guerra fu soprattutto Bush; ad anticipare la tregua è stato soprattutto Gorbaciov. Si deve
al leader del Cremlino se i cingolati del generale Schwarzkopf non hanno puntato direttamente su
Bagdad. Al di là della retorica e della propaganda, Gorbaciov è riuscito in extremis a raccogliere
importanti frutti: sul piano interno, perché ha fermato la distruzione finale dell’Iraq, da decenni creatura
privilegiata della casta militare sovietica in Medio Oriente; sul piano esterno, conservando nei riguardi
del mondo islamico una preziosa capacità di riferimento. Se Bush ha vinto, Gorbaciov non ha perso.
Anzi, da oggi il compito più delicato di Bush consisterà nel favorire in ogni modo il recupero di
leadership di Gorbaciov a Mosca. Sarebbe gravissimo che, per libido di vittoria, l’Occidente lasciasse
Gorbaciov in balia dei suoi mortificati generali. Da qualunque punto di vista, proprio l’esito della
guerra lampo obbliga l’Onu, gli alleati e soprattutto Bush a vincere ora la pace. In termini umanitari,
resta ben poco da fare di fronte ai reiterati orrori e al sacrificio di decine di migliaia di uomini che
hanno pagato il destino di non potersi nemmeno arrendere. Nessuno riuscirà a cancellare l’angoscia
dell’«avventura senza ritorno», dove uomini e cormorani, poveri cristi e professionisti della guerra, cieli
e acque hanno vissuto una stessa catastrofe umana e ambientale. Ma esiste ancora un ultimo, impervio
punto di ritorno, il solo in grado di prenotare un futuro: più che la conferenza di pace, una svolta nei
rapporti di forza; la coscienza dei tanti problemi collegati; il rimorso per lo sfruttamento, il cinismo,
l’incomprensione dimostrati dal mondo industrializzato verso l’area delle grandi religioni e dei grandi
giacimenti di petrolio. Il primo genocidio Saddam Hussein l’ha procurato al suo popolo, prima che ai
kurdi, all’Iran e al Kuwait. Eppure anche Saddam ha tentato di usare il suo Dio per coprire l’inganno. In
buona o cattiva fede, tutti hanno pregato il proprio Dio durante questa guerra. Adesso, arriva finalmente
il momento in cui, a cannone raffreddato, le intenzioni dei governi si sveleranno per quello che
realmente sono. Perché sia pace vera, soprattutto chi ha vinto la guerra dovrà fondarla sulla giustizia.

marzo 1991