1987 novembre 15 Il governo forte

1987 novembre 15 – Il governo forte

Il primo governo Craxi durò più di mille giorni, il più lungo della storia repubblicana; il Goria I è
caduto dopo soli cento giorni, uno dei meno longevi. Della «stabilità» il leader socialista fece la sua
bandiera: alla precarietà di più giovane presidente del consiglio dal dopoguerra ad oggi ha dovuto
piegarsi fin dal primo giorno.

A Goria non sono bastati né energia dei 44 anni né la popolarità, né l’aver esorcizzato in qualche modo
la Valtellina, Porto Azzurro, il Golfo: Questa crisi è soltanto la prima scossa di una faglia che tiene in
emergenza tutto il sistema dei partiti. Dietro la crisi di governo si nasconde un riassetto del potere che
presto o tardi ci porterà dritti a nuove elezioni.

Inutile farsi illusioni. Più s’indebolisce la guida politica, più l’Italia si frammenta in corporazioni, cobas
e gruppi centrifughi. Più aumenta la frammentazione e più diventa urgente un governo forte, io grado di
fare sintesi politica e di assorbire le spinte della società.

Un governo forte avrebbe potuto reggere anche senza i liberali. Se con il 2,1% alle ultime elezioni i
liberali sono in grado di aprire in quattro e quattr’otto la crisi, ciò dipende dal fatto che il Governo
Goria non era un vero governo. Per sigillo ha sempre avuto l’indice e il mignolo scaramanticamente
protesi come corna.

Al pentapartito ha fatto seguito la «maggioranza a cinque», che è tutta un’altra cosa. Per teorizzare la
distinzione, i partiti hanno inventato un’idiozia: si sta insieme con un programma senza l’accordo
politico. Come si possa – in un Paese alle prese con enormi problemi – separare le cose da fare dalla
volontà di farle, Dio solo lo sa.

Il risultato sta sotto gli occhi di tutti. Ognuno ha giocato per cento giorni come se Palazzo Chigi fosse
una sala transiti verso altra destinazione. Dall’ora di religione alla regolamentazione dello sciopero, dai
referendum alla finanziaria, questo governo è stato tutto fuorché una coalizione. Ai liberali spetta
almeno il merito di aver giocato d’anticipo, provocando con la finanziaria l’eutanasia del Governo.

I conti dello Stato non tornano. Il metodo più semplice di far quadrare la spesa è di applicare il rigore
solo a chi lavora (soprattutto i dipendenti) e a chi produce (le imprese). Di tagli non si parla. Se non si
risparmiano nemmeno i 400 miliardi che, attraverso le sovvenzioni allo spettacolo finiscono al cinema
a luce rossa!, non si può ragionevolmente sperare che venga bonificato il mostruoso salasso della
sanità.

Ma nemmeno i conti dello Stato sono una variabile indipendente della politica. Richiedono scelte di
campo, non programmi messi insieme con il cerotto. Gli appelli alla responsabilità si rivelano sempre
più patetici per la semplice ragione che, all’interno della maggioranza a cinque, gli interessi di partito
non sono mai stati tanto alternativi. La Dc è sulla difensiva, il Psi vuole stravincere la partita, il Pri
reclama tutto per sé il polo laico, il Psdi fiuta la calamita del riformismo craxiano, il Pli rischia di
ridursi a movimento d’opinione. Se il voto del 14 giugno ha accelerato la ristrutturazione degli spazi di
potere, i referendum hanno fatto il resto, con Craxi uomo-gol della mezza Italia del «Sì».

Nel momento in cui è massima l’urgenza di governabilità, i cinque registrano il minimo storico di
coesione. Il dramma sta tutto qui, nella dissociazione tra l’ordine del giorno del Paese e la capacità di

decidere. Si potrà fare in fretta anche un Goria II, ma non si uscirà dalla crisi senza mettere il dito in
questa piaga.

Anche il «malessere» dei comunisti – così lo chiama l’Unità di ieri – contribuisce a paralizzare il
sistema. Che ha poco governo e che ha nel Pci un’opposizione senza ruolo: per puro rito condanna ad
esempio il pattugliamento italiano nel Golfo ma non trova la forza di approdare senza tabù al
riformismo.

Diciamolo con franchezza: senza una svolta profonda nei partiti, la crisi sarà endemica. O peggio,
governerà la crisi.

novembre 1987