1977 marzo 24 Perché lo sci

1977 marzo 24 – Perché lo sci

In questi ultimi mesi, alcuni lettori mi hanno scritto per chiedere tre
cose: 1) perché ho cominciato a occuparmi di politica sciistica; 2)
se sono uno sciatore; 3) se preferisco Klammer o Thoeni. Sia pure
sfumando quest’ultimo quesito, dò spiegazione a questi lettori di
Mestre, Pordenone, Rovigo e Treviso con la risposta data al
settimanale Nevesport uscito con un numero speciale.

Sono un giornalista plebeo. Pur scrivendo occasionalmente
persino di tennis, nasco con il ciclismo e soprattutto con il calcio.
Nonostante telai al titanio da milione e passa, un paio di pedali o
una palla sono gli strumenti più automatici e popolari dell’istinto
sportivo di 53 milioni di italiani. Fino agli anni Sessanta, calcio e
ciclismo erano infanzia, maturità e senilità dello sport. Dagli anni
del boom economico, la gente ha scoperto il tempo libero, il gusto
del diverso, l’importazione di modelli, la voglia di partecipare, i
mezzi per consentirsi altre gite oltre lo stadio e altre attrezzature
oltre il banale quotidiano di un pallone o di una bicicletta.
Oggi il monopolio è sbrecciato: la popolarità ha rifatto la clientela.
A cominciare dallo sci che personalmente, pur avendo mezzo
sangue bellunese e valligiano, ho incontrato molto tardi, alle
Olimpiadi di Innsbruck. Lungo la pista di discesa mi sentivo come
deve sentirsi un bracciante a una festa di Guenther Sachs; i
bardatissimi spettatori del rito guardavano il mio montgomery
come si osserva uno straccio. Franco Villani ha spiegato su
Playsport che “soprattutto nella discesa libera vi è una sola
opportunità per scattare la foto. E’ un attimo, un centesimo di
secondo e poi tutto è finito”. Nel consigliare ai lettori l’esposizione
della pellicola, il fotografo sosteneva che per lo slalom bastava un
tempo di otturazione di 1-500 di secondo mentre per la libera
serviva 1-1000. “Ciò perché – aggiungeva Villani – il liberista, oltre il
naturale moto orizzontale, subisce della vibrazioni verticali che
inevitabilmente muovono l’immagine”.
Tutto questo l’ho capito soltanto perché qual giorno a Innsbruck mi
ero visto aggredito, a tre metri dalla staccionata, dalla sagoma di
Franz Klammer. Una frustata, uno schiocco di dita a cento all’ora
per un tipo di sciare definito selvaggio; uno sciare che sembra
avere un fatto personale con la neve e sente di possederla
soltanto se
la violenta. Sull’ultima gobba della pista del
Potscherkofel ho visto quelle ginocchia flettersi e ammortizzare

fino a farmi arrossire per transfert dietro i ricordi di certe bue e di
certi euripidei lamenti di qualche “eroe” degli stadi di football.
Ho scoperto lo sci nel gesto atletico e nella scultura muscolare
delle cosce di Klammer o di Stenmark che conobbi una sera ad
Asolo, borgo di fate sulle colline trevigiane. Ho scoperto lo sci nel
suo mistero, decifrato ad occhio nudo esclusivamente da una setta
di bianchi sacerdoti come nel caso di Claudia Giordani quando un
lieve calar di berretto sugli occhi e uno degli ultimi paletti dello
slalom speciale le negarono l’oro; “Su quel palo – rivelò più tardi
quel dolcissimo sguardo – ho lasciato un brandello di vita”.
Non ho mai sciato e la prima volta che ho visto sciare gli assi, la
razza dei Koenig, ho pensato a una schedina tipo Totip da
applicare allo sci. Ne provo vergogna a confessarlo, ma allora mi
sentii umiliato nella mia ignoranza e ammirato per la competenza
di Giuliano Besson. Un’ora prima della libera, giusto sulla gobba
dove avrei visto sibilare Klammer, Besson guardò su e giù
muovendo quegli occhi finto-pigri e disse: “Se Stricker spingerà sul
serio, in questo punto volerà sulle balle di paglia. Qui non può
farcela”. Stricker virò di lì a poco nell’aria e planò tra la paglia.
“Visto?”, mi chiese Besson con l’aria di chi aveva inventato l’acqua
calda. Ebbi la certezza che lo sci è più scienza del calcio, più
pronosticabile, ma a patto di saperne molto di più di un normale
sistemista pallonaro o di un habitué del Totip. Il calcio è un
cacciavite, lo sci un laser. Mi metto a ridere se vedo un Cotelli che
infila il dito nella neve come i mozzi di Sandokan fiutavano il vento;
mi sento un po’ Nereo Rocco, diffidente del training autogeno, di
Bach come additivo psicologico, dei diagrammi di Coverciano. Ma
mi arrendo, anzi mi incuriosisco e mi entusiasmo e comincio a
studiare tutto di questo sport quando scopro che persino nella
nostra sottosviluppata ricerca scientifica trova spazio un’indagine
dell’Università di Padova per togliere i sette veli alla neve e alla
scorrevolezza degli sci.
Solette e scioline, planata e galleggiamento, coesione e densità,
umidità e temperatura, raggi del sole e vento; staff di decine di
persone che si accampano in esperimenti da Antartide; scioline
paraffiniche messe al microscopio per una sorta di strip-tease
all’ultima cellula. Persino l’aggressività di Klammer e gli umani
brandelli della Giordani scompaiono nel laboratorio? L’interrogativo
non deprime nemmeno chi, come il sottoscritto, nasce da un
meschino pallone il cui unico problema è d’essere gonfiato alle
giuste atmosfere. Questo sci che cala il campione in un habitat

sempre più raffinato appartiene con coerenza alla generazione
degli astronauti, dei piloti di Formula Uno, dei paracadutisti da
acrobazia, degli uomini apnea. La tecnica non uccide; affascina, a
patto che non si trasformi in sofisticazione. L’apparato non
ingabbia, a patto che la manomorta dell’interesse non riduca
anche un microbo di sciolina a denaro.
La vita è salita. Lo sci è un rovesciare la vita, uno scappare in
ebbrezza, una vibrazione che punta alla valle, al cuore della terra,
In mezzo ad atleti, maghi, chimici e manager, io giornalista plebeo
ho individuato uno sport che per i Klammer deve avere l’impeto
dell’orgasmo.