1976 Ottobre 25 Lo smarrimento del guerriero

1976 Ottobre 25 – Lo smarrimento del guerriero

Non puoi essere normale se vuoi vincere in formula 1 e ieri in Germania Niky Lauda era normale,
un uomo come noi, un uomo che ha avuto paura. Paura della nebbia, paura del bagnato sotto un
cielo che nascondeva come un’angoscia il cono sempre innevato del Fuji.

Nella terra del samurai, più sensibili al suicidio che alla vita, l’austriaco ha smarrito la “via del
guerriero”. Non è stata la Ferrari a perdere, è stato il pilota. Davanti a quegli occhi quasi accecati in
agosto a Nurburgrin, l’ultimo dei sedici circuiti e l’ultimo giro di dieci mesi a tavoletta debbono
aver assunto il disegno di un’ossessione, forse di una fobia, una crisi di rigetto di fronte a un test
che non era più solo tecnico ma aveva il sapore di una scelta di campo: la classifica a punti o
l’esistenza da difendere.

Si chiamasse Rossi invece che Lauda, qualcuno non avrebbe probabilmente ritegno a parlare ora di
bassa fifa, una diserzione di stampo nostrano, la vocazione al mandolino più che alla spada, una
questione di etnos. Ma il nome di battesimo di Lauda porta una solida “K” austriaca e allora alla
paura non viene appiccicata la patina della vigliaccheria. Anzi, addosso a un pilota che fu chiamato
computer per la guida quasi automatica, la paura si fa austera. Paradossalmente, più che un vizio,
una qualità dell’anima.

Ritornando alle corse dopo l’incidente in Germania, Lauda dispensò imbarazzo con una immagine
di sé che sembrava fin troppo epica per essere autentica. Non è vero che con quelle bende e con
quelle orrende ferite e quel rifiutare la menomazione Niky era diventato più umano piuttosto è vero
che il pilota-calcolatore si ritrovò ad essere di colpo il pilota-eroe, entrambe le dimensioni negando
il pilota-uomo. Soltanto ieri, a due passi da un vulcano spento e sacro, l’austriaco ha riequilibrata la
sua identità.

Un momento dopo il via, in quell’orgasmo di motori, Lauda ha ritirato il piede. Sono stati attimi
brevi quanto pochi chilometri e lunghi quanto mesi di tensione: i mesi del fuoco, della tenda a
ossigeno, delle cliniche e dei trapianti. I mesi spesi a fingere che non fosse accaduto nulla e che, da
soli, abilità e temperamento avrebbero guarito i tessuti quanto i sentimenti. Nella nube d’acqua del
circuito giapponese, Lauda ha pagato tutto, ha fatto il pieno dell’esperienza e ha deciso d’istinto,
forse per la prima volta in vita sua, che il mestiere non può essere una fede.

Quanto accaduto in Giappone è raro e solenne perché nessuno ha perduto. Non ha perduto la
Ferrari; non ha perduto Lauda; c’è il vincitore ma non i vinti. Un vincitore che ha sofferto ogni
punto, anche l’ultimo della sua classifica mondiale. James Hunt su McLaren non è, né per guida né
per sguardo, parente di Lauda, tuttavia ha già segnato con una profonda traccia l’asfalto
dell’automobilismo. Un asfalto dove coraggio e paura sono gemelli.