1975 ottobre 19 Il calcio dei barbari

1975 ottobre 19 – Il calcio dei barbari

Nell’estate del ’67, per la finale di Coppacampioni Celtic-Inter (2 a
1), alloggiavamo a Estoril sulla costa atlantica, nello stesso
albergo degli scozzesi. C’era parecchio stupore in molti italiani
nell’osservare come se la spassavano quelli a un paio di giorni
dalla partita.
Allenamenti duri, ma poi pancia al sole in piscina, nuotate che non
finivano mai, drink da tagliargli le gambe, sigarette e certe sventole
di bionde che non erano certo lì per intonare canti in dialetto
gaelico.
Quando vedevo il lunghissimo terzino Gemmel tuffarsi urlando dal
trampolino, mi soccorrevano fumosi, ma ancora vivi, i ricordi
ginnasiali, questi celti valorosi descritti da Giulio Cesare, le loro
formidabili cariche a cavallo. Per l’iniziazione, i giovani guerrieri
tagliavano la testa all’avversario e ne conservavano il cranio.
Quel giorno contro l’Inter mica che mozzassero la testina a Corso
o Mazzola, eppure nel loro gioco c’era tutto il temperamento di un
popolo, una tradizione etnica. Si tuffasse in piscina o andasse a
scagliare il gol nella porta di Sarti, Gemmel era parente stretto di
quei cavalieri ammirati da Giulio Cesare.
Anche gli olandesi rappresentano nel modo di fare football il loro
“barbarismo”. Alti, biondi, forti, dolicocefali, navigatori e mercanti,
costruttori di dighe e coltivatori di tulipani, un po’ sassoni, un po’
franchi e un po’ frisoni mescolano pedate, fiorini, belle donne e
voglia di vivere con una naturalezza sconosciuta ai latini. “E così
l’Olanda affonda”, scrivevano catastroficamente gli inviati italiani
ad Amsterdam dopo aver toccato giorni fa con mano le liti, le
gelosie e
la
morigeratissima Polonia che viene dall’Oriente.
Vanno in campo e il loro calcio è coerente con tutto ciò che
rappresentano di edonismo e forza. L’ha detto Omar Sivori: “I latini
hanno creduto di vivere di rendita sulla superiorità tecnica mentre i
giocatori del nord hanno perfezionato le loro qualità”.
Sbagliano qualcosa perché fanno quasi tutto in velocità, una
velocità che a Valcareggi, bontà sua, è parsa persino “eccessiva”.
E ti spiattellano sotto gli occhi cose che noi abbiamo scordato o
non abbiamo mai visto. Quelle piratesche cordate per mettere
l’avversario in offside; quelle azioni di prima che sembrano
cancellare l’idea della pausa; quelle battute verso l’out che danno
agli schemi il tempo di certi larghi delle sinfonie; quelle spaccate o

il divismo a poche ore dalla partita con

tuffi di testa tesi a deviare in gol con tale aggressività da restituire
allo spettatore la voglia di gridare e di alzarsi in piedi, gesti questi
ultimi che nella nostra repubblica stanno sempre più perdendo in
motivazione tecnica e si riferiscono invece quasi esclusivamente al
pernacchio di setta o all’insulto arbitrale.
Non risolveremo mai nulla, non recupereremo mai lo spettacolo
pensando di risolvere le carenze con un terzino tre metri più avanti
o un battitore con licenza di evadere un paio di volte dall’area di
rigore. Poiché il calcio dei nordici diverte di più perché sono i
calciatori del nord a divertirsi di più giocando e a realizzare
maggiormente d’istinto, il problema numero uno è psicologico,
riguarda l’individuo e la massa.
Sdrammatizziamo il calcio per liberarlo da troppi calcoli e tabù.
Incredibile eppure vero, anche la tattica e persino la tecnica
tengono radici nella cultura. Né “barbara” né latina la nostra, ma
adesso imbastardita.