1975 novembre 21 I talenti di Castelfranco

1975 novembre 21 – I talenti di Castelfranco

Il primo è un cestista, ha 19 anni ed è già da un pezzo il numero
nove titolare della Duco. Il secondo è un calciatore, ha 20 anni e
domenica scorsa ha esordito da mezzala in serie A con il Verona.
Sono Borghetto e Guidolin, due longilinei che di uguale hanno
soprattutto un dato: luogo di nascita e di residenza, Castelfranco
Veneto.
Attraverso campioncini come loro, il Veneto resta fertile. Attraverso
la loro selezione, l’associazionismo di provincia continua a restare
quella fondamentale cellula che per la società è invece la famiglia:
Massimo Borghetto esce invece infatti dalla Polisportiva dopo aver
tentato i primi canestri al patronato; Francesco Guidolin arriva dal
Giorgione, onusta società che ancor oggi s’identifica nel passato
greve, il cappelluccio marron, il bastone per reggersi ma lo spirito
intatto di Bepi Ostani.
Gente che il calcio l’ha fortemente aiutato a svilupparsi, parlo di un
Gipo Viani o di un Herrera, hanno spesso sostenuto che il
benessere
toglie ambizione e che dunque, nello sport
professionistico, sarebbero favoriti i giovani pungolati dall’ansia di
conquistarsi lire e un posto al sole loro negato dalla famiglia.
Borghetto e Guidolin smentiscono almeno una volta questa tesi.
Appartengono entrambi alla borghesia, non so quanto opulenta ma
di certo operosa e senza problemi economici. Il padre di Borghetto
è un industriale edile resosi originale con la “trave ad ipsilon”; il
padre di Guidolin sta nel settore degli alimentari.
Con il suo metro e novanta Borghetto è un “basso” del basket.
Prima in prestito, l’hanno in seguito interamente ceduto alla Duco
ma lui assicura di non conoscere la cifra. Per le 18-20 ore di
allenamento alla settimana piglia uno stipendio che, a sentir lui,
non gli dà l’aria d’essere un professionista, come certi suoi
compagni di squadra, da Villalta a Cartwright. Anche per questo
studia senza sentirsi nauseato, preparandosi alla maturità
scientifica.
La balia di Borghetto fu Gianni Scapinello, alla Polisportiva. Poi,
sia pure di fretta, Nane Vianello; poi Giomo; ora Curinga.
Tecnicamente parlando, Borghetto è un “guardia”, cioè spalla del
playmaker o cameriere del pivot in attesa che, aprendosi un varco,
tocchi magari pure a lui di andare a canestro. Secondo gli schemi
di Curinga, il tourbillon dovrebbe un po’ spersonalizzare i ruoli ma
Borghetto agisce soprattutto dove si “porta la palla”.

In palleggio è quasi ambidestro e a canestro conclude con una
mano secondo la tecnica oramai assodata del basket moderno
(tiro infatti più efficace e più di lontano). Tra il tabellone che indica i
punti e Borghetto esiste però un diaframma psicologico. Se gioca
in trasferta, Borghetto va a segno di più e gioca meglio; se gioca in
casa, raramente tocca il suo standard.
Il segreto c’è e si vede. L’ho scoperto io stesso la sera che, per la
prima volta in vita, ho visto giocare la Duco al palazzetto di
Castelfranco. Tra file distanti dal parquet, in tribuna centrale, la
sagoma del padre di Borghetto, robetta di due metri, uno che devi
notare anche se non ne hai la minima voglia. Dietro un canestro,
pure lì alla terza fila, i lunghi capelli biondi di Anna, la sorella di
Borghetto. Sui fitti gradini dei “popolari”, gli amici di Borghetto,
ragazzi come lui, tipi con i quali va a spasso, al cinema. Tutto il
suo paesaggio affettivo, tranne la previdente madre, è ad ogni
partita lì presente, massiccio, opprimente quanto un grande affetto
o una grande simpatia.
In trasferta, quando gli scompare dagli occhi quell’interno di
famiglia, Massimo Borghetto
le sue capacità
inseguendo il tipo di basket che sogna da sette anni: quello degli
Usa, con la forza fisica, la spettacolarità, la finezza degli assi
yankee se, soprattutto, con la coordinazione dei colored.
Guidolin, “Checco” per gli amici “Guido” per i giocatori del Verona,
è iscritto all’università di Padova: ha scelto medicina forse
consigliato dalla sua ragazza, che dev’essere stata la sua prima
bellissima cotta di ragazzo timido e sensibile. Era timido ma non lo
è più: gli hanno fatto scuola Busatta, Zigoni e Maddé. Ora è più
uomo, più maturo, più sicuro di sé.
Lo
ricordo esile, sottile, bisognoso di esercizi che ne
spalancassero il torace. Erano i tempi in cui, con la pazienza che
viene soltanto dalla passione, Tonin Guarise lo allenava tra i
pulcini del Giorgione. E nessuno era più pulcino di lui, per quella
geometria che non nasceva dalla forza ma dall’intelligenza, per
quel
l’allenatore a
doverglielo indicare con il ditino alzato o un sibilo del fischietto.
A testa alta, già da ragazzo Guidolin usava gli occhi come un
periscopio: i piedi viaggiavano da soli. Piedi buonissimi visto che,
al concorso nazionale dei Nagc a Coverciano, fu secondo assoluto
e secondo per la differenza di uno stop volante, storia di un mezzo
punto. Da un paio d’anni è al Verona che l’acquistò per 10 milioni e
un’amichevole. Con il Verona, il primo impegno serio fu la Coppa

il piazzamento senza che

fiutare

libera

fosse

tutte

Galtarossa a Padova dove gli consegnarono la targa come
“giocatore più classico e tecnico del torneo”.
Vecchia volpe degli anni ’50, Jaio Scudeler mormora: “Guidolin sa
sempre dove distribuire il pallone”. Tattica alla mano, è un po’
Franzoi, un po’ Maddé, un po’ Moro. Perché ha posizione, perché
sa smistare, perché sa anche “andar dentro”. Il tiro e la freddezza
non gli mancano: non a caso è il rigorista della under del Verona e
usa entrambi i piedi sottorete.
“Altro che bocia timido – mi ha confidato Garonzi – quest’anno mi
ha sparato 500 mila lire di stipendio al mese!”. Il presidente
aggrega alla frase una risata di quelle che lo piegano perché
Garonzi è invece convinto di aver fatto un investimento di buon
calibro mentre Ferruccio Valcareggi riuscirà certamente a farlo
convocare tra poco nella Nazionale under 21.
Ero a San Siro per Milan-Juve quando Guidolin esordiva contro
l’Ascoli, una partita che a lui dev’essere servita soltanto a rompere
il groppo in gola di ogni professionista al primo impatto con lo
stress del campionato.
Ma avevo visto Guidolin recentemente a Villa Santina, in Carnia.
Ne ammirai l’irrobustimento, le cosce lontane mill’anni dai Nagc, la
souplesse nel gestire gioco dalla zona di mediano a quella di
rifinitore del gol. “Che aspetti a tirare?!” gli urlano un paio di volte
Valcareggi e Mascalaito. Ecco, in un surplus di aggressività, di
confidenza in se stesso, di forza nel tiro o nel tackle, ecco sta qui il
qualcosa che Guidolin deve ancora perfezionare, un po’ come il
sogno americano d’un basket più fantasioso, sempre presente in
Borghetto.
Personalmente mi fa allegria quando lo sport aggiunge volti nuovi
alla sua inesauribile pellicola. Ma in questo caso, da compaesano
di Massimo Borghetto e Francesco Guidolin, i lettori perdoneranno
se han colto tra le righe un’oncia di allegria in più.