1974 febbraio 14 Ritratto del Mago

1974 febbraio 14 – Ritratto del Mago

Negli ultimi anni, con la Roma e l’Inter, ha scelto Venezia per ritiri anche lunghi. Il suo dentista
esercita Valdagno. La sua compagna, Fiora Gandolfi, è trevigiana. All’incredibile poliglottismo di
una vita da “zingaro”, Helenio Herrera aggiunge nella maturità persino una dose di venetismo. Anche
se, di Venezia, la cosa che in fondo l’ha più incuriosito è stato scoprire a qualche porta il cognome
Errera, senza h, ebrei.
A 62 anni, Rocco torna a Trieste patriarca tra i nipoti. A 57, Herrera è padre di un bambino di due
anni: un bambino chiamato Helios, sole, non per esotismo quanto per ribadire un’esistenza che ha
paura del tramonto.
C’è Forse in questa differenza tra Herrera e Rocco, più significato di quanto non ci sia in un’intera
doppia, biografia. Rocco non teme la vecchiaia; Helenio la rifiuta. E la rifiuta a tal punto che, a Milano
e soprattutto all’Inter, sono in molti a non credere alla data di nascita del suo passaporto francese: 17
aprile 1916, Buenos Aires. Lo fanno addirittura più anziano di Rocco: cioè, del 1910. Una malignità
legata alle incerte anagrafi sudamericane ma che acquista peso nei silenziosi corridoi della Clinica
Ronzoni dove, ora, HH viene curato in isolamento. Isolato lui che è nato per avere cornice,
possibilmente la folla. Toccato al cuore lui che, da tutti, anche dagli estimatori, è sempre stato definito
“grande tecnico e uomo senza cuore”.
Corre una logica tra la carriera di Herrera e il “crollo da stress”, come è stato chiamato il suo infarto.
Perché è stato proprio lui, il Mago, a inserire nel calcio italiano il doping psicologico, lo stress come
programma, la tensione continua come metodo del professionismo pedatorio.
“Io debbo essere pagato più degli altri perché porto più gente allo stadio”: lo ripete ad ogni rinnovo
di contratto è, almeno per il 90 per cento delle situazioni, i conteggi gli hanno dato ragione. Se “taca
la bala” era infatti soltanto l’aggressività applicata alla tattica, la “carica” è un bombardamento al
tappeto che conta soprattutto sul rimbombo della stampa. Il culto della personalità non ha mai avuto
per Herrera un significato gratuito: si è sempre tradotto in ciniche lire, fino al plagio dei dirigenti: 20
milioni al mese per 12 mesi, pagò un anno la Roma. Lo slogan più usato da Helenio è “nuove
ambizioni”. Il suo vocabolario non conosce il sostantivo umiltà. La chirurgia plastica, totale, è il suo
Eden. Se il football può tradurre lo “slancio vitale” di Bergson, non c’è dubbio che il bergsoniano
giusto è Herrera.
Un amico, gran osservatore di football, dice di non aver mai sopportato l’improntitudine di HH, la
facilità nel contrabbandare propaganda per verità ma sostiene anche che il ricovero in clinica non è
sorprendente visto che la panchina di Helenio non era una sedia del disincanto, come per Fulvio
Bernardini, “er dottore de Roma”, ma piuttosto un lettino da elettrochoc.
Per vendere lo stress Herrera l’ha dovuto sempre sperimentare in proprio. E forse per questo, per tale
ruolo di vittima diventa oggi persino più patetico di Rocco capace di confessare, con naturalezza
“sono stanco”.
Herrera è un Ariete, segno zodiacale firmato dalla volontà. Ciucca fino alla fissazione quando si tratta
di imporre il proprio “Yò”, ma non sprovvista di una certa fantasia; i polmoni ionizzanti dei primi
anni di Appiano Gentile, il lancio del gioco degli scacchi tra i giocatori, l’hobby delle lezioni di lingue
straniere per uccidere la noia di squadra, il ritiro con le mogli contro la repressione sessuale, sono
tutte fasi di un unico tentativo per scappare alla “normalità”, all’uniformismo di categoria. Helenio
Herrera Infatti non si era mai sentito allenatore ma soltanto Herrera, in prima e ultima persona.
Eppure, Herrera non paga ora soltanto lo stress da panchina. Per restare allo zenit come uomo, HH
ha riaperto la sua vita sentimentale è riattizzato lo istinto della paternità. Un qualcosa in più che l’ha
trasformato persino nel banale quotidiano. Ora, “Settimana Extra” fotografa Helenio nella sartoria di
Antonio Cataldo quando, prima di Fiora, l’unica misura era il grande magazzino. Oggi, Herrera legge,
conosce pittura, entra in salotto; avendolo conosciuto durante i ruggenti anni ‘60 non stupirei nello
scoprire che lo stress più aspro, più di 30 anni in panchina, è stato per lui indossare il “cashmere” o il
leggersi virilmente ironizzato nel Guerin Sportivo dalle indimenticabili vignette di Marino. Helenio
è praticamente di una sola fede: sé stesso. Perciò il fallimento della nuova Inter gli deve sembrare

incomprensibile quanto almeno la domenicale dicitura di “migliore in campo” dedicata dai giornali a
Mario Corso, mancino per lui superfluo.
L’hanno chiamato “buffone”. Furino ha dichiarato in TV “non facciamo più caso a quanto dice”.
L’uomo nato per vincere deve cominciare a perdere, tra sbigottimento e ribellione. Il suo sarcasmo
attaccava spesso l’imborghesimento altrui: ora il mago si fa borghese, abita in Montenapoleone,
accetta il compromesso, non è più “tuttocalcio”, si avvicina ai gesti di uomo, entra passo dietro passo
nella maggioranza. Non è più unicum né solitario. Mette i capelli bianchi, forse rinuncia la tintura.
Diventa più vero e nel perdere magnetismo perde credibilità, quella sua, tutta speciale, costruita sui
fatti e, in mancanza di essi, sulle parole.
Ma HH resta un mattone importante del calcio nel dopoguerra. Assieme alle ipertrofie, Herrera ha
portato organizzazione dando al tecnico un taglio tecnico: si è sempre rifiutato infatti al trafficume
del Mercato. Ha confessato di aver rubato da ragazzo, per fame: confessione onesta quanto l’onestà
offerta in molti anni di lavoro in Italia, in un “giro” dove il contratto cade spesso al sottobanco. Non
è questa virtù da buffoni.
Senza HH e Rocco non va in crisi Milano, bensì un costume, senza loro due, è la fine dei notabili, dei
personaggi da intervista, della vecchia guardia un po’ reazionaria è un po’ indotta al “faso tuto mi”,
incapace insomma di credere veramente al lavoro di equipe. Una generazione abituata a parlare al
singolare.
Con Rocco a casa e HH in clinica il nostro calcio non ha guadagnato nulla. È più poveraccio. E sa di
latticino.