1974 febbraio 13 Come se il Milan avesse cambiato ragione sociale

1974 febbraio 13 – Come se il Milan avesse cambiato ragione sociale

Nereo Rocco è una stagione. Lasciando alle spalle l’uscio dell’A.C. Milan S.p.A., in via Turati 3, il
paron ha mutato il tempo del calcio italiano.
Occorre essere nati “leader”, animatori di folla, per turbare le lancette dell’orologio. Rocco è leader,
sia pure impastato di uova farina burro e marsala; un leader che preferisce la trattoria all’auditorium;
un leader dialettale; un leader suo malgrado.
Anche Federico Fellini, scopritore di volti e dunque di etnos italico, si era accorto che Rocco porta
una faccia speciale: e gli voleva affidare la parte di un operaio in “Amarcord”. La faccia di Rocco è
speciale perché vale quanto u passaporto o una carta di identità: offre le generalità, quasi tutte.
Fisicamente poderoso: non a caso, forse, cominciò a giocare a calcio con la “Ginnastica Triestina”.
La mandibola ben nutrita: la sua seconda attività è vendere carne, all’ingrosso e in macelleria. La
stabilità dei lineamenti affidata al naso visto che gli occhi sono mobilissimi, per timidezza, appena
compensata da burbere sopracciglia, del taglio di Guareschi o Cervi. La bocca sottile e il mento
massiccio, per una fusione di ascendenze viennesi e clima padano.
Dove ha deciso di rompere il contratto con il Milan? In un ristorante di Milano, “L’Assassino”, al
solito tavolo, nel solito angolo, con i soliti amici e la solita bottiglia. Rocco è un conservatore, in un
significato preciso: conservare, ripetere, rivivere le cose buone del passato proprio per uccidere
l’abitudine che è rifare qualcosa senza volerlo. Conservatore e dotato di humor, il suo “comunicato”
non poteva essere stilato che su una tovaglia, dettato a braccio e garantito dalla presenza del Barbera.
Dicono che è umano. Forse perché non pratica lo yoga di Helenio, né le saune di Liedholm, né le
diete di Heriberto. Eppure, Rocco inventò al Padova e perfezionò al Milan due strumenti
assolutamente scientifici: il catenaccio e la commissione interna.
Il catenaccio gli servì per superare tatticamente la sua condizione di “poareto”, status psicologico
difficile da dimenticare anche quando salì ai quartieri alti. La commissione interna gli servì per
coinvolgere la squadra nella responsabilità: con Rocco, il Milan vinceva “insieme” ma perdeva anche
“insieme”. Un’autentica trovata, concessa a sé stesso più che al dialogo, capace di farlo assumere due
volte al Milan per restarci, in tutto 9 anni: molti, moltissimi nel Paese delle panchine a rapida
combustione.
Rocco non si è mai vestito a festa: al Milan ha ripetuto i toni padovani, smussati soltanto dagli anni,
non dall’opportunismo.
Abituati a tutti i trasformismi, il paron ritorna dalla Lombardia ancora paron. Non è mai diventato
veramente commendatore.
Al primo impatto con Helenio Herrera, nel ’60, quando l’ironia riduceva le sue iniziali ad Habla
Habla, Rocco tenne barricata a Padova per tutto il match: nel primo tempo perse con un gol di
Masiero; nel secondo tempo vinse con due contropiede.
Nell’intervallo, era uscito dallo spogliatoio rivolgendosi a Blason e Pin: “’Ndemo ‘ndemo, fioj, che
al mago ghe batémo le croste”.
La battuta, l’oggi sempre attaccato al ieri, il ricordo, il riferimento, sono il vero marchio di Rocco: un
copyright che non avrà eredi anche perché i giovani leoni che stanno aggredendo le panchine della
serie A appartengono ad un’altra razza. Sono la generazione dei colonnelli, ambiziosi, gelidi,
carrieristi, efficienti, pieni di nozioni ma non altrettanto di “cultura” che è soprattutto senso della
propria storia, apertura umana, una oncia di scetticismo quotidiano, rispetto per le “piccole cose”.
Piccole cose non piccoli valori.
Rocco è bonario, rustico, invadente, permaloso. Sul bastone e carota, Rocco ha costruito una filosofia.
Non soltanto con i giocatori. Persino con i giornalisti: li separa in “amici” e “nemici”, ma li separa
senza negarsi a nessuno: la sua scomunica è una scrollata di testa con le grandi firme o un “brutto
mona, coss te gà scrito?” con le firme giovani.
Rocco è furbo. La connivenza con Gipo Viani, “volpe di Nervesa”, perfezionò il suo fiuto innato per
la posizione giusta.

Così, Rocco si oppose sempre alla cessione di Altafini e, più tardi, ha sempre coperto le spalle,
sempre, a Rivera l’intoccabile.
Rocco è furbo ma è anche un sentimentale. Ha lasciato i Milan perché era di Buticchi. Non avrebbe
mai rescisso il contratto con il Milan di Rizzoli né con il Milan dei Carraro.
Di Rizzoli, Rocco avvertiva il fascino tradotto soprattutto in “assenza” visto che il mecenate
s’affidava ai manager e scendeva dalla tribuna soltanto nei momenti da mecenate.
Di Carraro padre, Rocco amava la semplicità, il dialetto veneto, la stessa cadenza di vita. Di Carraro
figlio, Rocco apprezzata la giovanissima età (presidente a 30 anni), tale da consentirgli il ruolo oltre
che di tecnico, di pater familias in S.p.A..
Per lavorare insieme a qualcuno, Rocco deve sentirlo almeno un po’ amico. E Buticchi è petroliere
salito in fretta nel grattacielo del benessere, portato ai cocktail della jet-society piuttosto che al
bicchiere di grignolino: incarna l’efficienza basata sui dati degli uffici-ricerca più che sulle intuizioni
e le “caicole” di Nereo.
Con il Milan, Rocco ha vinto tutto. Gli è mancato, come osserva l’affettuosa Maria Barzini, sua
moglie, “l’ultimo scudetto, quello di verona, per andare proprio soddisfatto in pensione”. Rocco che
ritorna a Trieste non sarà un patrimonio sprecato.
Ma da oggi, il Milan non è più il Vecchio Milan. Con Rocco a casa, Schnellinger quasi al confine e
Rivera verso i 31 anni, l’Ac Milan S.p.A. è come se avesse cambiato ragione sociale.