1974 agosto 4 Il pubblico di Mestre e il silenzio del Tennis

1974 agosto 4 – Il pubblico di Mestre e il silenzio del Tennis

Tiriac come tennista è un orso, Bertolucci è un brevilineo. Nastase ha gli occhi ansiosi. Panatta ha le
spalle e l’anda del marine. Ma tutti e quattro, come tutti quelli del tennis, sono dei sismografi,
sensibilissimi nel captare la minima vibrazione, il più piccolo brusio, la turbolenza delle parole e,
forse, anche i pensieri.
Il pubblico deve guardare e tacere. Negli sport plebei, il pubblico può giocare. Nel tennis no. Zitti e
muti, trattenendo muscoli facciali, uva e mani finché il gioco non sia fatto.
I quattro del “doppio” hanno sofferto un po’ tutti l’invadenza del pubblico di Mestre. Un pubblico che,
a tratti e nonostante i patetici richiami dello speaker, non riusciva a restare assente, spettatore compito
di uno sport che affonda le regole nel fair play del silenzio.
Le urla dei ragazzini di una non distante piscina; qualche bottiglia di minerale arrotolata tra le fessure
delle tribune prefabbricate; la partecipazione straordinaria di un po’ di gente sulle terrazze vicine;
persino il fischio di un treno: tutto ciò ha impedito che la Coppa Davis fosse un rito per iniziati,
un’oasi di competenti e di fedelissimi ai quali nemmeno una sillaba può scappare mai.
È comprensibile un certo fastidio dei quattro doppisti. È naturale una certa insofferenza tra gli amici
del tennis club. Ma, da spettatore qualunque quale io sono, suggerirei agli specialisti un po’ di
comprensione che è anche la sola maniera per non slittare nello snobismo.
Fossimo un Paese di tradizione sportiva. Fossimo un paese dove la scuola è anche scuola di sport.
Fossimo un Paese dove da decenni si investe l’avvenire anche con impianti, campi di tennis piscine o
palestre. Fossimo un paese dove milioni di ragazzi possono scegliere di essere praticanti di molti
sport, prima di trovarsi costretti a essere spettatori e spettatori di solo football. Fossimo un paese così,
allora anche le tremila persone di Mestre riuscirebbero a modellare il loro tifo secondo i canoni di
Wimbledon, con il silenziatore.
Invece, non siamo un Paese così. E allora c’è gente, come il sottoscritto, che il tennis va a guardare e
gustare soltanto se arriva la Coppa Davis, cioè soltanto se arriva lo spettacolo più dello sport, se
arrivano i personaggi oltre che i colpitori di racchetta. Chiaro che questa gente è un po’ disadattata,
fuori ambiente, e porta nel tennis e ovunque la memoria del suo sport infantile, il calcio, quello che
si può giocare anche sull’asfalto o sul sagrato di una chiesa, persino senza un pallone degno di questo
nome.
La gente che non riesce a stare zitta non è gente maleducata, non è gente che non sa stare al mondo.
È soltanto gente che ha voglia di scoprire qualcosa di diverso del calcio e che pur tuttavia il calcio se
lo porta incollato addosso come un adesivo.
Certe smorfie di Tiriac e certi “per piacere” di Bertolucci rivolti a un pubblico troppo passionale e a
volte poco tempista mi hanno ricordato il teatro La Fenice, ai concerti di Arthur Rubinstein, il
favoloso vecchietto che con le sue mani riesce a condurre in poltrona anche persone che il teatro La
Fenice probabilmente lo dimenticheranno per il resto della vita.
Persone che vanno da Rubinstein non a un concerto. Persone dunque impacciate. Nemmeno queste
praticano il rito e ne conoscono le regole. Applaudono fuori tempo, non conoscono la musica suonata
e quindi, non sapendo aspettare le pause dello spartito, vengono ingannate da una nota bassa, un gesto
del pianista che dia appena il sospetto dell’ultima note.
Al teatro La Fenice o in Coppa Davis il silenzio viene rotto non per bifolcaggine, ma per ingenua
inadeguatezza, per una cultura che non ha avuto gli strumenti d’essere popolare quanto il tram e la
pagnotta.
Amici del tennis, dateci tempo. Un giorno riusciremo a stare zitti pure noi, trogloditi del calcio.