1973 settembre 5 Un anno fa sangue alle Olimpiadi

1973 settembre 5 – Un anno fa sangue alle Olimpiadi

Alle 5 e 10 del cinque settembre ’72, un anno fa a Monaco, il
sangue della politica riduceva a flebile fiammella il braciere
dell’Olimpiade. Quel giorno cadeva soprattutto un’illusione:
d’essere lo Sport una sorta di zona franca dell’odio, secondo
concezione aristocratica e cavalleresca. Raccontata da 700
giornali e da una settantina di stazioni radio-televisive per un
miliardo di spettatori, l’Olimpiade aveva perso la sua autonomia:
veniva afferrata dai kamikaze di
“Settembre nero” come
un’occasione, enorme set della loro disperata guerra totale.
Alle 5 e 10, il villaggio dormiva, nella tarda e tiepida estate della
Baviera. La strada della squadra italiana era la Connolly Strasse,
dedicata all’atleta cecoslovacca che da ragazza si chiamava
Fikotova e scappò negli Usa per sposare un grande campione,
Connolly.
Al numero 31, una palazzina a due piani colore perla, alloggiavano
gli israeliani.
Due postini tedeschi vedono otto persone, in tuta d’atleti, saltare la
rete di recinzione del villaggio. Non ci fanno caso: borbottano
allegri, pensando a una storia di birra e ragazze. Sono le 5 e 10 e
comincia così, con un balzo felpato, il dramma che il quotidiano
francese L’Aurore, con un titolo alto 12 centimetri, chiamò “le
carnage”, la carneficina.
Alle 5 e 20 una Putzfrau, donna delle pulizie, sentiva il ta-ta dei
mitra: due israeliani, battezzati Mosè e Giuseppe, erano i primi di
diciassette morti, undici ebrei, cinque arabi e un poliziotto tedesco.
Per ironico contrappasso, uno degli ultimi comunicati dei terroristi
assicurava che, nonostante tutto, non sarebbero mai recessi dal
loro atteggiamento umano.
Il sole era salito sul villaggio, oramai ridotto a bunker dal cordone
“di sicurezza”. La palazzina, al numero 31, era un distillato di
terrore. Tra ultimatum, bivacchi di curiosi, antenne della polizia,
canti biblici di giovani ebrei, passavano le ore nel silenzio di nulla,
dove l’unica certezza era che il ta-ta dei mitra non sarebbe rimasto
a lungo muto.
L’ansia della “notizia” portò un giornalista italiano a scavalcare un
muro di quattro metri, fratturandosi la tibia. Ma la prima notizia fu
un bus, fermatosi alle 22 a pochi metri dai terroristi. La notte era
pulita, con profumo di tigli. Vidi, uno a uno, israeliani e fedayn,
salire sul bus. Stavo sdraiato sull’erba di un dosso, tra decine di

fotoreporter e cineoperatori: i flash erano un unico lampo, e tutto
taceva come per un rito. Un rito di morte, che sarebbe cominciato
mezz’ora dopo, nel buio pesto di un aeroporto militare, e che
avrebbe sparato l’ultima pallottola alle 2,30.
Di quella sorta di tiro a segno tra uomini non c’erano stati
testimoni, non un giornalista. Seguimmo la tragedia dalla sala-
stampa, attraverso la Tv a colori, collegata in circuito chiuso: i
microfoni erano aperti su noi, sentivamo i colpi.
E fummo vittime tutti di un allucinante errore: trasmettemmo ai
giornali la notizia, “gli ostaggi sono stati liberati”, comunicata con
voce inghiottita dal capo della polizia di Monaco, alla televisione.
A Tel Aviv ci fu un momento di gioia ebbra. Poi, l’agenzia France
Press iniziò a correggere l’illusione: “c’è un morto” nel primo
flash;… “due, forse tre”, nel secondo; fino alla verità, tutta la verità,
17 morti, nessun ebreo sopravvissuto, e il sindaco di Monaco che
esce dall’aeroporto sussurrando: “è andato tutto storto”. Nemmeno
i James Bond del servizio segreto, gli stessi cecchini che avevano
colpito al cuore la banda Baader-Meinhoff, erano riusciti a salvare
l’Olimpiade.
D’acchito, avremmo spento la fiaccola, ritornando a casa. Ma la
pelle di Avery Brundage, vecchiaccio di Chicago, è un cuoio. Gli
bastarono 24 ore do lutto per riaccendere il Mito dello “sport più
forte della violenza”. Oggi, un anno dopo, non sono sicuro che
avesse proprio torto d’insistere il miliardario dell’Illinois. Ma è certo
che, da quel giorno, per i resti dell’Olimpiade, avevamo conservato
vista, udito e olfatto. Non più il sapore.