1973 giugno 9 Il nostro calcio ha 75 anni, quello di Rio è senza data

1973 giugno 9 – Il nostro calcio ha 75 anni, quello di Rio è
senza data

L’oriundo Altafini, il carioca Cinesinho, Vinicio dell’interno minerario
(lo stato del Minais Gerais), il funambolo Amarildo, l’architetto Dino
Sani, l’eclettico Nené: sono soltanto alcuni nomi di quella grande
patria del futbòl che è il Brasile. Nomi che, con una personalissima
striatura, hanno inciso sulla corteccia del calcio nostrano. Il
provincialismo ci fa spesso trascurare il “resto del mondo” ma
proprio la presenza di questi campioni, distinti per razza non per
classe, ha maturato tra Italia e Brasile un rapporto di conoscenza e
di simpatia.
Football è parola che testimonia il marchio inglese di questo sport,
aristocraticamente importato in Italia. Proprio in Italia, come in
Olanda o in Germania o in Spagna, il professionismo moderno ha
toccato il tetto. Ma bisogna sempre emigrare in Brasile per
scoprire il calcio come un’altra cosa.
Sport umile, i piedi e un pallone, il football è istinto e riscatto per
molti ragazzi del Brasile, enorme riserva di povertà. Forse anche
per questo la “pelota” è tutta diversa sotto il sole dei tropici.
Il Brazil ribadisce tre volte di essere il migliore del mondo. Il Brazil
fa nascere Pelé, tanto unico quanto magico. Rio de Janeiro
possiede il Maracanà, uno stadio da 250 mila, vulcano quando si
riempie, spettro affascinante quando è vuoto. Sulla sabbia di
Copacabana si gioca un regolare “campionato delle spiagge”, a
piedi nudi, con telecamere sul lungomare.
In Brasile nasce la tecnica, non la tattica. Quest’ultima è specialità
esasperata per ovviare alla minore affinità tra giocatore e pallone:
non a caso il catenaccio, da Viani a Rocco a Helenio, fiorì in Italia.
Quando osserva che “i brasiliani giocano a zona in difesa”,
Valcareggi sottolinea inconsapevolmente un costume più che un
modo di stare in campo. Giocare “a zona” significa infatti
soprattutto una cosa: credere nel primato della tecnica sulla tattica;
credere che, per fermare un attaccante avversario, non sia
necessario appiccicarsi a lui come l’edera al muro; credere infine
che uno sport collettivo non sia soltanto somma aritmetica di 10
tête-à-tête ma anche realizzazione di una “scuola”, di un valore
spesso impalpabile e negato ai computer.
Per questo cumulo di grandeur, e nonostante la pensione di Pelé,
non esisteva al mondo una squadra più adatta a onorare il
settantacinquesimo compleanno della Federcalcio. Di Italia-Brasile

la

finale di Mexico
infatti che, nonostante

non va preso alla lettera il risultato, ma il potenziale: come un
suggerire la battuta per Monaco ’74, dove (Germania permettendo)
’70. L’eclissi
potrebbe anche ripetersi
dell’Inghilterra dimostra
i molti
limiti
d’ambiente, nemmeno l’Italia deve patire complessi d’inferiorità.
Italia-Brasile non merita le deformazioni di certo tifo, livido e triste
perché incapace di sorridere. Questa partita, anzi, merita in ogni
caso un’oncia d’affetto. Se il nostro calcio ha 75 anni, quello
brasiliano viene di lontano, molto di lontano, senza una vera data,
perché nelle misere favelas che sovrastano Rio non c’è tempo per
tenere un calendario. Lì, si nasce, si gioca, e basta. Così, da
sempre.