1973 giugno 4 Contro gli orfani di Pelé Rivera metterà una pietra

1973 giugno 4 – Contro gli orfani di Pelé Rivera metterà una
pietra sui famigerati “sei minuti”

Mancavano meno di cinque minuti alla partita quando con la Rollei
scattai la foto dell’inchino: era il 21 giugno 1970, le ore 12 di Città
del Messico, le 20 italiane. Era caduta un po’ di pioggia, fenomeno
tanto strano per l’altitud che l’istituto meteorologico ci fece arrivare
in
tribuna questo dato: prima di quelle c’erano state 308
domeniche senza pioggia. Ma quella domenica era ancora più
strana per un’altra ragione: in finale mondiale, con il Brazil di Pelé,
giocava l’Italia!, da 32 anni negata persino all’atmosfera dei quarti
di finale.
Il Brasile era l’Ajax di oggi; come la Juve l’Italia di ieri. Se la tecnica
possedesse infallibili raggi X, avremmo dovuto leggere prima che
Brasile e Ajax “dovevano” vincere. Per vincere a Città del Messico
e a Belgrado, il football italiano aveva infatti una sola possibilità:
essere al 100% di sé, in stato di beatitudine psicofisica, con
marcature perfette, integrità dinamica, forma individuale. Il Brasile
e l’Ajax possono invece consentirsi di essere i migliori (di
un’epoca) senza sembrare (per un pomeriggio o una notte)
semidei.
C’era una maglia speciale in campo allo Estadio Azteca, la numero
10 dei carioca, entro la quale scattava un giocatore che, per il
nostro umile sport delle pedate, è stato ciò che Picasso fu per la
pittura moderna o Von Braun per lo spazio: Pelé, bambino a piedi
scalzi e, forse anche per questo, capace da adulto di non fare
differenza tra mani e piedi, nella stessa sensibilità tattile, tra arti e
pallone.
Italia-Germania fu definita “la partita del secolo”. Pelé era il
giocatore del secolo. Quando, in maggio, partimmo per il Messico,
si leggeva un po’ ovunque: “Non è più lui”. Aveva addosso gli anni,
i traumi, le ossa battute e, soprattutto, una carriera già antica, visto
che a 16 anni era già o rey.
Poi, in finale, Pelé sparpagliò così la sua solitaria grandezza nei
quattro gol ad Albertosi: il primo di persona; il secondo con tocco a
Gerson; il terzo con testa smarcante a Jairzinho; il quarto con
passaggio a Carlos Alberto. La “perla nera” aveva colpito ancora,
con la sibilante flessuosità di un cobra. Di lui, il Ct. Zagalo disse:
“Ieri era il più grande goleador del mondo, oggi è il più grande
uomo da ultimo passaggio del mondo”.

tutti

Mai come in quella partita, l’Italia fu da parte sua testimone fedele
di tutte le proprie virtù e di tutti i propri limiti. Migliore tra gli azzurri,
Rosato, un difensore. Peggiore, Riva, un goleador al quale la
nascita regalò un piede solo ma al quale i duemila metri di Città del
Messico tolsero la potenza. L’unica rete nostrana, di Boninsegna,
uscì da un dribbling che era una spirale di italica furbizia, un
furtarello al portiere.
Per mezza partita, il pubblico vide l’Italia che sa inventare attimi
maschi della sua storia; per l’altra mezza, vide l’Italia che chiede
acqua e capisce chi sia il padrone. E, per sempre, infine,
ascoltammo
il silenzio della panchina, con Valcareggi
abbandonato alla smemoratezza più di un’Ofelia shakespeariana,
fino al grottesco dei “sei minuti” di Gianni Rivera, buttato in campo
quando tutto era finito, come gettare una biro in mare perché si
aggrappi il naufrago.
Sono molti i ricordi che torneranno sabato prossimo a Roma, per
un’Italia-Brasile che ha l’aria del memorial day, in amicizia non più
per una Coppa. Dopo Mexico ’70, l’Italia atterrò proprio a Roma e
rischiò la bastonatura per l’oltraggio a Rivera; il Brasile scese a Rio
de Janeiro dove morirono cento persone in un carnevale di follia, e
la follia può anche essere il modo più rapido di ubriacare la propria
povertà e la propria ansia. Sabato a Roma, non sarà in gioco “la
vita del football”, eppure in molti avranno quasi la sensazione di
averla già vista quella partita, in una specie di replay del
sentimento.
Il Brasile non è più Pelé. E’ gli orfani di Pelé, visto che la sabbia
bianca di Copacabana non ha ancora maturato due piedi e un
cervello altrettanto nati per calciare. L’Italia non è più la nazionale
“messicana”. Brasile e Italia fiutano Monaco ’74 e, faccia a faccia,
cercano i giovani, le speranze di nuove finali. Non ci saranno né
bastoni, né morti. Ma football. E, soprattutto, classe. Del Brasile.