2000 aprile 11 Verso le elezioni. Cacciari

2000 aprile 11 – Verso le elezioni Ritratti dei candidati: 2. Massimo Cacciari
Cacciari, un trappista contro il moloch Lega-Polo. Uomoponte fra riformisti e cattolici, il professore
rimette in gioco una sfida altrimenti scontata. I Cacciari sono bolognesi di Imola, ieri terra di
barbabietole oggi di formuleuno. Con la moglie Ilaria e il figlio Piero, Gino si trasferisce a Venezia per
dirigere i cantieri navali. Piero si laurea in medicina a Padova e diventa un pediatra stimatissimo a
Venezia: al consultorio di Castello una piccola lapide ne ricorda, oltre che la bravura, la generosità.
Gino è il nonno, Piero il padre di Massimo Cacciari che, misteriosamente, combinerà in politica geni
emiliani (il modello della concertazione), geni veneziani (il modello delle idee) e geni veneti (il
modello del fai da te). Il 5 giugno 1944, mentre i tedeschi abbandonano Roma liberata dagli alleati, il
futuro filosofo – che l’amico-nemico professor Brunetta chioserà «professore di filosofia» – nasce in
calle del Vaporetto a San Tomà, cioè San Tommaso, a un passo da quella delizia della Scuola dei
Caleghèri, i calzolai delle antiche corporazioni quattrocentesche. La Venezia dei mestieri e della
sapienza artigiana. Gli piacerebbe fare il rocciatore, toccare il cielo. Da ragazzino, s’innamora del
ciclismo fino ad adottare la dieta di un campione del mondo, Ercole Baldini, a base di uova sbattute che
gli prepara la mamma, venezianissima, Ermenegilda Momo, «Gilda». Una passione, il ciclismo, che
non lo abbandonerà mai, fino a Merckx, fino a Pantani, del quale scriverà su «Repubblica» che in salita
ha spezzato la forza di gravità in due, una è per Pantani e lo fa volare su, l’altra è quella nostra, che ci
trascina in basso: un pezzo da grande giornalista sportivo. Massimo ha un fratello, Paolo, di cinque
anni più giovane. Paolo ama affrescare, legge l’Isola del tesoro di Stevenson, ragiona come un
ambientalista antemarcia, che considera il suo tesoro la laguna veneta, esposta alle manomissioni, agli
inquinamenti, anche alla brutalità dei vongolari. Sono fratelli così diversi, i due Cacciari, eppure
predestinati entrambi alla politica, a sinistra. Non so, è una mia illazione; forse, un qualche refolo
familiare giunge loro, alla larga, dallo zio Arnaldo Momo, raffinato uomo di teatro e uno dei più
accreditati studiosi di Goldoni, che nutre sentimenti socialisti e antifascisti. Precocissimo, Cacciari si
scatena fin dal ginnasio, al Marco Polo, il liceo bene di Venezia, alla stregua del Tito Livio di Padova e
del Canova di Treviso. «Una classe folle la sua», mi racconta un amico. Nella stessa classe, un sacco di
gente che sarebbe diventata qualcuno, come Cesare De Michelis, come il cattolico Pino Goisis, come
Guido Paduano, futuro grecista di vaglia. Sono anni formativi, a cavallo tra i cinquanta e i sessanta,
movimentisti si direbbe nel linguaggio d’oggi. Con Cesare De Michelis, fonda «Il volto», la prima di
una lunga serie di riviste culturali mai conformiste. Fa comizi a tutto spiano, e c’è chi ricorda ancora il
primo, in campo Santo Stefano, all’assemblea degli studenti medi. Un mito, allora. I temi, come il ferro
battuto, sono la pace, l’atomica, la mortale garrota della dittatura franchista, i marines che sbarcano alla
Baia dei porci a Cuba. Cacciari parla in pubblico con naturalezza, impara a domare la frase, nessuna
piazza gli farà mai più paura: scuola dura, quella appresa sul campo, in tempi di febbroni e di tempeste
anche culturali. Si va in campo per la prima di un’opera d’arte, nel nome dell’avanguardia, come
accade alla Fenice con Intolleranza, musica di Luigi Nono e scenografia di Emilio Vedova, due maestri
che da allora incidono in profondità sulla storia intellettuale di Cacciari. «Presenze forti anche dal
punto di vista umano», insiste, tra ammirazione e gratitudine, per il musicista e per il pittore. Quella
Venezia è il crogiolo che fonde, dissolve e smembra tante anime a contatto di gomito, comunisti,
socialisti, artisti, operaisti, studenti, sindacato, Gianni De Michelis e il più giovane Massimo Cacciari,
la stagione dei «Quaderni rossi» di Panzieri, Asor Rosa e Tronti, l’incontro con Toni Negri appena
dopo l’esperienza di consigliere socialista del psi di Padova. Venezia e/o Padova fanno laboratorio
politico, a volte estremo. A Padova, Cacciari si iscrive a Filosofia. Ma, ventenne, esordisce in fabbrica
a Marghera: già nel 1964, probabilmente primo in Italia, affronta il tema della nocività delle produzioni

nel ciclo della chimica. Il titolo è molto cacciariano, assiomatico: Non monetizziamo la salute, che si
serve dei dati di medicina del lavoro. Lui annota: «Il tema della salute non se lo inventano i magistrati
né i verdi, ma gli operai, la nuova, giovanissima classe operaia di Marghera». Toni Manotti, Bruno
Massa, Italo Sbrogi , Piero Trevisan…, singolari figure di operaiointellettuale, che studiano, indagano,
fanno inchiesta. «Figure che rifiutano il ruolo di operaio-massa», osserva da parte sua Paolo Cacciari.
Nell’avamposto industriale e fordista di Marghera, si forma anche ceto, anche socialista. Vedi Corrado
Clini, con Gianni De Michelis. Tra politica della realtà e fuga nella rivoluzione, Cacciari sta per forma
mentis nella prima, e si iscrive al pci. La sua prima tessera è del 1969, l’ultima sarà del 1983. Gli
ortodossi del partito, alias «stalinisti», lo guardano con precauzione se non di traverso, anche perché la
caratteristica di tutti i movimentisti di quegli anni è l’antisovietismo sparato. Lui, che avversa per
istinto ogni nomenklatura, diffida del comunismo come «vecchio delirio panindustrialista», polemizza
sia con la destra (Amendola) sia con la sinistra (Ingrao) del partito, sente l’invasione di Praga come una
tragedia. Quasi un male fisico. Lo manda in bestia l’ideologismo; non sopporta i mandarini della
forma-partito anche quando li stima come uomini.
Pur deputato alla Camera per due legislature, si trova sempre «totalmente spiazzato» rispetto allo
schema dato. Il pci è una porta girevole; c’è chi entra, stufo di prerivoluzioni permanenti e c’è chi esce,
come il gruppo del «Manifesto». Cacciari incarna alla perfezione un celebre motto: «Dentrocontro»,
stare dentro il pci ma nel nome dell’innovazione continua, materiali «dentrocontro» per l’appunto, in
posizione deliberatamente scomoda. Alla fine, non sbatte la porta né fa la vittima. Molto più
semplicemente, senza retorica d’abbandono, giudica esaurita l’esperienza ma, soprattutto, sente che il
Partito comunista manca di presente per vertigine da passato. Cacciari se ne va; chiude un capitolo
politico ma anche una storia umana e, nel chiuderli, non è già più lui. È oramai un Cacciari altro, per
dirla con una sua formula da professore di Estetica. Gli anni settanta gli hanno consegnato due
esperienze nuove di zecca, per lui decisive. Come responsabile del settore economia e lavoro del pci
veneto, gira in lungo e in largo la regione: con gli occhiali a Marghera, il pci non vede il capitalismo
diffuso; Cacciari lo vede, lo incontra da vicino, ne rimane segnato. Una scoperta inaspettata, che
tuttavia non riesce a trasmettere al partito, tenacemente fossile nella formula che vede nel territorio
soltanto «lavoro nero, evasione fiscale e sfruttamento». Nemmeno le analisi dei Rullani, Musu,
Forcellini, passano: la coltre dell’ideologia è più forte S’imbatte anche nel federalismo, Cacciari, ed è
la seconda mutazione, che nasce dall’incontro con il professor Miglio, politologo, costituzionalista di
fama, allora rettore dell’università Cattolica di Milano. Il tema è la Repubblica di Weimar, ma la
riflessione finale porta «oltre lo Stato», al riformismo dal basso, alla società dei corpi viventi, ai
Comuni, alle Regioni. Nell’inconscio, forse, si materializza Galan… Cacciari è l’uomo del «ponte», fin
dal 1989, l’anno fatidico del Muro. È l’uomo della relazione ieri, della concertazione oggi; aspira a
conciliare cattolicesimo con riformismo. Il suo ultimo slogan invita a «provarci insieme». Quando
lavora all’«idea di Venezia», rifiuta contro Visentini, contro tutti, la sua separatezza. Da Mestre e, a
maggior ragione, dal Veneto. Da laico, avverte il fascino dei principi della Chiesa, come prova il
dialogo costante con il patriarca di Venezia Cè e con il cardinale Martini. A Udine, non hanno
dimenticato la sua prolusione alla Bibbia tradotta in lingua friulana. Prima di essere eletto
europarlamentare, scrive due libri per approfondire la sua visione di Europa. Che non deve conciliare
gli opposti, ma anzi nutrirsi di essi in quanto ricchezza e atto di nascita: insomma, l’Europa come
«arcipelago» di pluralità. Spiazzato un giorno dentro il pci, tende sempre a smarcarsi in avanti, come fa
con il movimento dei sindaci. Quando avverte che l’amministrazione (dei Comuni) sorpassa il teatrino
(della politica), invita l’onorevole Covre, leghista, a Ca’ Farsetti nel nome della trasversalità. I

ritardatari la scambiano per qualunquismo; Cacciari la mette in campo come suo ultimo «ponte»,
aggiornato al Nordest. Se Confindustria veneta liquida la presidenza di Mario Carraro, il primo a
commentare è Cacciari: «Hanno perso l’industriale più innovativo». Proprio in coppia con lui, prova a
trasformare le istanze del Nordest in programma; un’idea di autonomia in Movimento. Ma non
funziona. L’industriale e l’intellettuale, a prima vista tagliati su misura, scoprono di non saperpoter
collaborare. È un curioso fallimento, che Carraro ancor oggi definisce «surreale», perché senza
«colpevoli». Il dramma di Cacciari è l’incendio della Fenice, non perché dramma suo, ma della Città.
Dunque, totalmente suo, il doppio suo; «inaudito» mi disse in quei giorni. Se Galan ironizza: «Di
quanti centimetri è diminuita l’acqua alta a Venezia nei sette anni di Cacciari?», l’ex sindaco gli
attribuisce il Premio Nobel della barzelletta. Se Galan gli chiede quanti posti di lavoro ha creato in
laguna, Cacciari lo invita a informarsi alla Galileo, alla Tencara, all’Arsenale, all’Alutekna eccetera per
sapere «quanti ne ho difesi». Ma è una campagna elettorale tendenzialmente civile, che Cacciari sta
conducendo da trappista. Di tasca sua spenderà quaranta milioni in tutto, quando ne servono duecento
persino a quella di un aspirante consigliere regionale. Ha un’auto nuova, una station wagon della Ford,
ma viaggia di notte e di giorno senza autista, senza scorta, senza segretaria. Tutti i sondaggi gli
attribuiscono un’immagine molto forte, ma lui ne è quasi spaventato. «È una personalizzazione persino
eccessiva, questa delle regionali, che carica i candidati-presidenti di troppe speranze e di troppi destini,
più che in America, dove esistono anche movimenti e apparati solidi alle spalle. Almeno nel mio caso
non la trovo giusta, perché moltiplica le attese all’ennesima potenza». Il Veneto degli anni novanta è un
terzo Polo, un terzo Lega, un terzo Ulivo. Nel 2000, Massimo Cacciari se la vede con Polo e Lega
insieme. Sulla carta, ha perso di netto. Se rovescia da solo ogni rapporto di forza elettorale, diventa un
caso nazionale, non veneto. E diventa anche la vera alternativa a Massimo D’Alema: non c’è proprio
verso; è sempre scomodo Cacciari, fatalmente.
11 aprile 2000