2000 aprile 19 Né Lega né Sinistra. Questa è la nuova Dc

2000 aprile 19 – Né Lega né sinistra, questa è la nuova DC
Mentre trionfa il senno di poi, che è il partito nazionale di coloro che sapevano tutto prima ma che lo
dicono soltanto dopo, conviene affidarsi alla nudità dei numeri. I numeri sono sempre infinitamente
saggi, anche in politica. Il centrodestra ha preso in Veneto il 60,3 per cento, risultato di coalizione
semplicemente strepitoso. Vogliamo confrontarlo con il dato più recente, cioè con le Europee del 1999?
L’anno scorso la somma dei partiti che oggi formano il Superpolo (Polo più Lega Nord) si fermava al
51,6 per cento: il che significa un balzo di nove punti! In un solo anno, è il miglior incremento del
centrodestra in tutta Italia. Non convince il raffronto con le Europee? Benissimo. Dal momento che
tanto Berlusconi quanto D’Alema hanno politicizzato al massimo il voto regionale, diamo pure
un’occhiata alle politiche del 1996. Il dato più interessante è questa volta interno al Superpolo: Forza
Italia sale dal 17 al 30 per cento, la Lega scende dal 29 al 12. È un altro Veneto; in altre parole, vince
soprattutto Berlusconi con la sua «nuova Dc»; una «marea», ha sussurrato lo stesso Massimo Cacciari.
Questa neo-Dc, che trascina l’intero Polo, assomiglia soltanto in parte alla vecchia Balena bianca, come
la chiamò Giampaolo Pansa. È assai più laica; convince il cattolico della domenica più che il cattolico
impegnato. Tiene insieme valori cari alla Chiesa (scuola privata) e parole d’ordine ad essa del tutto
estranee (certo liberismo da Chicago boys). Il manifesto di De Gasperi era il popolarismo, quello di
Berlusconi la popolarità: una distanza genetica parallela a due mondi, due stili, due epoche. La
parrocchia e Publitalia. Ma questo schema è vecchio, resiste in parte soltanto per la mia generazione.
Ai giovani, ai ragazzi, ai nuovi ceti finalmente approdati al «benessere per tutti» come si diceva nella
Germania di Adenauer, dice poco o nulla, anzi e senza esitazione nulla: per i ragazzi la storia comincia
dagli anni ‘90, soprattutto nel Veneto del tremontismo e del cacciarismo, delle partite Iva e della
sinistra nordestina convertita all’impresa, di Vancimuglio e del Life, dei Serenissimi e dei Vescovi
federalisti, dell’autodeterminazione leggera e degli imprenditori che dettano i programmi di legislatura
alla Regione. In questo contesto di massa, mai elitario, il 60,3 per cento del centrodestra rappresenta la
continuità del moderatismo alla veneta, del capitalismo a grappolo, del lavoro autonomo, del rifiuto –
quasi un istinto – dello Stato padrone. Questa è la «nuova Dc», il berlusconismo come nuovo
doroteismo degli interessi diffusi. Non più il partito di plastica, non più il telegioco del consenso
popolare e nemmeno la fuga nella destra «barbara». Non facciamo ridere anche i polli: il bipolarismo
perfetto, o di qua o di là, la cosiddetta «scelta di campo», reinventa destra e sinistra, interessi, ceti,
domande sociali e soluzioni molto concrete. Il centrodestra ha risposto al 100 per cento alla sua base
socio-economica; il centrosinistra ha deluso persino i suoi tradizionali ceti di riferimento. «Un
cedimento strutturale», lo definisce Cacciari. I numeri spiegano anche il resto. In nessuna area d’Italia
il partito di D’Alema-Veltroni è debole come in Veneto: oggi al 12,4 per cento. Qui la sinistra non è
mai stata competitiva e nemmeno il centrosinistra ha mai rappresentato più di un terzo del Veneto. Al
33,7 per cento della coalizione Cacciari ha aggiunto un 4,5 per cento di suo che, tanto per fare un
esempio, vale sei volte l’effetto-Bassolino a Napoli; ma soltanto le follie sondaggiste potevano far
credere che l’«immagine» fosse convertibile in «voto». Un’apparenza del tutto virtuale, scomoda
soprattutto per Cacciari, che ad un certo punto è passato quasi per favorito mentre in realtà era soltanto
l’outsider, sostenuto da una coalizione debole. Nella stagione del proporzionale, il Veneto è stato di
centro; in quella del maggioritario, è di centrodestra: da 50 anni, non ha mai cambiato pelle. Ha
cambiato vestito, mai pelle, e nessun indizio faceva prevedere che il 16 aprile del 2000 Cacciari
avrebbe potuto porre fine a questa tenuta del modello veneto, persino più resistente del modello
emiliano per quel che riguarda la sinistra. Diciamo la verità: una vittoria di Cacciari sarebbe stata uno
strappo storico non elettorale, un cambio di identità (politica) non una scelta di campo (regionale).

Troppo anche per lui che, nella politicizzazione abilmente imposta da Berlusconi a D’Alema, non era
più un «ex sindaco» ma un «ex comunista». Doveva vincere il centro-destra, ha stravinto. Il
centrosinistra doveva perdere in piedi, gli è andata molto peggio. Galan ha raccolto cinque punti in
meno rispetto alla sua coalizione ma, personalmente, non lo considero un fallimento convinto come
sono che nell’immaginario veneto dell’elettore del Superpolo conti soltanto l’idealtipo, cioè Berlusconi
e/o Bossi, più del candidato presidente. L’effetto-Cacciari c’è stato, ma non nella misura da lui stesso
messa in conto. Dal mio punto di osservazione, immaginavo un plusvalore di almeno 8 punti, non certo
di 4,5 come è stato, pur considerando Giancarlo Galan un candidato forte, il più forte che Forza Italia
potesse mettere in campo in Veneto. Quel che risulta alla fine è un Veneto ancora laboratorio, ancora
mutante. Tra i due Poli, è scomparso tutto, azzerato. La Lega non è più forza a sé stante, anche se vale
nel Polo più di Alleanza Nazionale. Nemmeno il centrosinistra, pur battutissimo, sarà più lo stesso:
dipenderà da Massimo Cacciari, non più dai Ds. Non è poco.
19 aprile 2000