2000 aprile 10 Verso le elezioni. Galan
2000 aprile 10 – Verso le elezioni Ritratti dei candidati: 1. Giancarlo Galan
Galan, la competizione come chiave della vita. La storia privata e i successi del leader polista veneto al
seguito del Cavaliere fra Fininvest e Forza Italia. Giancarlo Galan è un vergine, nasce all’Arcella poco
distante da dove morì sant’Antonio, il 10 settembre 1956. Quaranta giorni prima, l’Andrea Doria va a
picco in Atlantico; quaranta giorni dopo, i sovietici invadono l’Ungheria e fanno ventimila morti:
l’anticomunismo dev’essere il suo primo biberon, come una premonizione nel sangue. E fu subito
Arcore. La mamma, vicentina, è laureata in giurisprudenza; il padre, radiologo, è rodigino di Trecenta,
nell’alto Polesine, e gli insegna fin da bambino a pescare. Un giorno, i pesci saranno come voti
all’amo, direbbe la sua parabola elettorale. Curiosamente, Galan ricorda le elementari Rosmini più
delle medie Zanella, a cominciare da un maestro di origine austriaca, Evaristo Rotter, che gli pare di
vedere ancora alla lavagna. Ai tempi della scissione in due licei, frequenta il classico fra il Tito Livio e
il Marchesi. Ama la geografia, funziona con il greco e con la matematica, detesta il latino, inquadra a
malapena l’ora di religione. Suoi professori indimenticabili sono monsignor Rocco Valentino Antoniol,
autore di una grammatica di latino in spagnolo, e Mario Quaranta, che insegna filosofia: «Più a sinistra
di un maoista – manda a memoria Galan – ma bravissimo». A bocca aperta rimane anche al Bo, quando
ascolta le lezioni del professor Pierobon, succeduto a Trabucchi in diritto civile, e del professor
Mazzarolli. «Roba da applausi». Il fratello Alessandro è chirurgo oculista, la sorella Valentina diventa
«la letterata di famiglia», lui prende tutto dalla mamma e si laurea in giurisprudenza. Un po’ di
confidenza con il codice di procedura la matura a Udine, dove si fa un annetto di naja come soldato
semplice in fanteria, difendendo i commilitoni in piccole cause da pretura. Visto che il civile gli dice
poco o nulla ma il penale tutto, trova il modo di far pratica presso l’avvocato Alfredo Biondi, che nel
1983 ha lo studio a Genova e il Partito liberale in mano. Insomma, casa (politica) e bottega
(professionale) per il rampante Galan, cresciuto via via liberale tra il liceo e l’università sulle pagine di
Ralf Dahrendorf più che di Luigi Einaudi. Buona borghesia. Era destino che il flirt con la professione
forense dovesse durare lo spazio di un mattino. Quando Biondi diventa ministro, il primo
dell’Ecologia, salta sul suo treno e scende alla stazione Termini per fargli da giovane assistente. Sulle
prime sgomita; dopo un anno e mezzo, cede. Nonostante lo stomaco extralarge, Galan accusa nausea da
Palazzo vedendo all’opera le correnti degli Altissimo e dei De Lorenzo, epopea liberale
dell’infinitamente piccolo. «Sentii lo schifo della politica; da allora, per anni e anni la saltavo a piedi
uniti anche sulle pagine dei giornali. Chiuso». È la strambata della sua vita, molla Roma e vira su
Milano, verso l’università Bocconi che lo ammette, insperatamente, al master in Business
administration, roba durissima, che prepara alla competizione interna in ogni tipo di struttura.
Antemarcia, senza saperlo, assapora il marketing berlusconiano fondato su un’unica tavola della legge:
ama la competizione più di te stesso. Competo ergo esisto. Anche il voto agli esami si determina
esclusivamente in base al confronto diretto: se hai fatto un esame ottimo, ma gli altri cinquantanove
iscritti al master lo hanno fatto perfetto, tu sei fregato. La chiave non è misurarsi ma vincere, battere il
competitore, il resto conta zero. Fin dai tempi insospettabili della Bocconi, Galan studia per prendere,
alla fine, un voto in più di Massimo Cacciari alle regionali del 2000… La Bocconi, si sa, è una fabbrica
di opportunità. Sui trent’anni, le offerte di lavoro gli piovono come la manna, compresa una di quaranta
milioni all’anno più benefit per fare da assistente al presidente dell’Efim, Ferdinando Palazzo. Il padre
di Galan bada al sodo e gli consiglia: «Corri»; lui no, rifiuta. Lo intriga, il doppio, Publitalia,
nonostante l’ingaggio dimezzato, 19.250.000 lire annue, lorde. Siamo a metà degli anni ottanta e, a
Milano, soltanto l’affitto di un mini si mangia mezzo stipendio. Però , vuoi mettere il baraccone
parastatale dell’Efim con la new economy di Berlusconi? Lo attraggono il marketing, la televisione, lo
spot, la pubblicità, anche quell’odore forte di Far West, da pistoleri dell’immagine, una specie di
grande drive in d’impresa. È il suo pane e fa carriera sotto l’ala di Dell’Utri, il più colto e il più
impenetrabile di tutta la Fininvest, uno che legge Bacone in latino e che un giorno teorizzerà il «partito
azienda», Forza Silvio ridimensionato in Forza Italia. Tra Bocconi e Publitalia, Galan vive a Milano
otto anni. Diventa alla svelta direttore generale, il suo pil è vendere spazi pubblicitari, con qualche
cliente esclusivo, gestito di persona, come la Unilever che gli assicura duecento miliardi all’anno.
Frequenta Dell’Utri, non ancora Berlusconi, che vede soltanto sul palco, dal basso in alto, durante i
mitici lunedì aziendali, quando il Cavaliere raduna l’esercito dei suoi dirigenti, collaboratori, venditori
e promotori, tutti rigorosamente in cravatta, i capelli curatissimi, le funzioni riconoscibili dal distintivo
sulla giacca, come mostrine di una divisa. La convention è la sua messa cantata. Fin dai primi anni,
Galan comincia a riconoscere a Berlusconi sette virtù infuse. La cocciutaggine, la meticolosità, la
voglia di arrivare, la determinazione, la capacità di coinvolgere la gente, la generosità, la bontà
d’animo, amen. «Non c’è dipendente delle sue tante aziende – garantisce il mezzo bocconiano – che
con lui sia rimasto per strada, nemmeno quelli che gli avevano combinato delle malefatte». (Nemmeno
Bossi, tornato a cuccia). Soltanto il Milan in doppiopetto, che stravince a raffica, imbarazza la fedeltà
di Galan, juventino da sempre. Per tutto il resto è feeling, anche se si tratta ben presto di ritornare allo
«schifo» della politica. Nello sfascio della dc, del caf craxiano e del centro moderato, l’estate del 1993
cova la svolta: il capo scende in campo, primo imprenditore a dodici zeri dall’Unità d’Italia alla prima
Repubblica che miri ad acquisire Palazzo Chigi, il più bell’investimento immobiliare dai tempi di
Milano 2. Detto fatto. I soci fondatori sono diciotto; quel giorno ad Arcore, si timbrano le prime
diciotto tessere di Forza Italia, l’ultima delle quali, ma non ultima in ordine gerarchico, porta il nome di
Galan. Il signor diciotto torna a casa, a Padova, ufficialmente come responsabile di Publitalia per il
Nordest anche se in realtà non vede un tabulato che sia uno, né vende un solo modulo di pubblicità.
Avendo per hobby il diploma di istruttore di tecnica subacquea, lavora a proprio agio in apnea e senza
dare nell’occhio per organizzare «il partito che non c’è». Mentre la sinistra cerca la cosa progressista,
Publitalia lancia il prodotto moderato; e funziona, anche in Veneto. È il 1994. L’onorevole Galan entra
alla Camera dei deputati un po’ emozionato, la cravatta di seta e un sorriso largo come Prato della
Valle. Diffida ancora di Roma, ma tra gli scanni di Montecitorio si aggira chiedendo ai più esperti dove
un tempo si fossero seduti De Gasperi, Ugo La Malfa, il suo amato Malagodi.
Di Togliatti, non chiede. Ma non fa in tempo ad approfondire nulla, tanto da confessare che non ha un
buon ricordo di quell’anno, toccata e fuga. Il suo personale ribaltone glielo ordina Berlusconi,
precettandolo in Veneto per le regionali del 1995. Addio Camera. La sfida veneta è tutta padovana, tra
Galan e il professor Ettore Bentsik, due pesi massimi per stazza. Una campagna spigolosa, astiosa,
cattiva, finisce per contrapporre di brutto due candidati che, a suo tempo, erano sembrati dalla stessa
parte, quando anche Bentsik, ex campione sportivo, ex sindaco, brillante docente di matematica,
appassionato di Galileo, uomo politicamente inquieto, aveva salutato con favore l’avvento di Forza
Italia. Vince facile Galan, perché vince facile il Veneto moderato, ex biancofiore, degli imprenditori
neoliberisti e postdorotei, il Veneto che alla sinistra tradizionale concede al massimo un terzo
dell’elettorato. Con quei rapporti di forza, avrebbe vinto anche il cavallo di Berlusconi, ma Galan lo sa,
non si dà arie immeritate. Privo di esperienza, come del resto ventinove consiglieri su trentacinque di
maggioranza, fa politica più che amministrazione; s’industria con ciò che meglio sa. Guarda alla Lega
più che ad Alleanza nazionale: «Io non sono di destra», ripete da sempre, e ci tiene a marcarlo anche
scenicamente. Quando prende posto in Consiglio regionale, evita con un marchingegno di avere gomito
gomito l’esponente di an. Si sbilancia sul federalismo, fa le fusa con Comencini fino a firmare,
esattamente due anni fa, la risoluzione a favore dell’autodeterminazione del «popolo veneto». Attacca a
turno Scalfaro, Prodi, Visco, Berlinguer, Treu, ma per la Bindi nutre una furiosa allergia, sentitamente
ricambiata. Definisce «demagogo di periferia» il sottosegretario vicentino Mauro Fabris, che gli
rinfaccia il nulla di fatto sul Passante di Mestre. Adotta ad honorem i «serenissimi» del campanile,
anche se alla fine di cento solidarietà, pelose e d’ogni colore, resteranno soli e in cella. Si allea con
Comencini contro Bossi, ma dice «obbedisco» quando Berlusconi lo allea motu proprio con Bossi
contro Comencini. Sospira che è la vita; una vitaccia. «Senza Lega, si perde», gli spiega il Cavaliere.
Di cinque anni di Regione, Galan si dà un buon voto: 7. L’opposizione lo definisce di volta in volta
simpatico fannullone, pasticcione, scansafatiche, portaordini di Arcore. Lui oppone la pagella di
Moody’s, tribunale inglese dell’efficienza, che classifica al primo posto il Veneto, al secondo l’Italia.
Del Consiglio regionale uscente, stima molto Walter Vanni, avversario «duro e chiaro»; Carlo Alberto
Tesserin per la «preparazione»; Ruddi Varisco per l’«eleganza formale»; Margherita Miotto per il
«rigore dossettiano». Nutre simpatia per Resler e Buttura, amicizia per Elio Armano, «colto e
raffinato». Ma, precisa subito, molti altri non li stima affatto, tanto all’opposizione quanto nella
maggioranza. Rivendica di aver investito 160 miliardi nella solidarietà, ma pur rammaricandosi di non
aver fatto di più. Accusa lo Stato centrale di barare sulle competenze e, soprattutto, sulle risorse, ma se
qualcuno insiste con le cifre nel sostenere che si poteva fare di meglio, parte in contropiede: «Vorrei
sapere di quanti centimetri è diminuito il livello dell’acqua alta in sette anni di Cacciari e di quanti posti
di lavoro è cresciuto il bacino di Venezia». Per sfotterlo, Cacciari lo chiama «il mio amico Galan». Lui
gli ghigna con un beffardo «professore». Anche se i sondaggi lo premiano con un vantaggio dai quattro
ai sei punti, è scomoda la posizione di Giancarlo Galan. Se perde, ha perso lui, con il centrodestra; se
vince, ha vinto il centrodestra, non lui. Al contrario di Cacciari, ha molto da perdere, però non fa una
piega. Ha scritto novantatré pagine per dire cosa ha fatto negli ultimi cinque anni e altre novantatré per
dire cosa farà nei prossimi cinque: come dire che crede ciecamente nel suo bioritmo. Fino in fondo.
10 aprile 2000