1997 agosto 13 Attaccati al tram leghista

1997 agosto 13 – Attaccati al tram leghista
Umberto Bossi sa quel che dice e, ancor meglio, ci che vuole: la secessione, punto e basta. Un giorno
parla di «repubblica del Nord», un giorno di «indipendenza», un giorno di «Padania», un giorno di
«confederazione», ma sempre di secessione si tratta, uno Stato nuovo di zecca, tomba del federalismo
della prima ora leghista. 1861-1997, fine dell’Italia. Da sedici mesi non ha mai cambiato di una virgola
la strategia. Si è dato simboli, bandiere, miti, soli e colori. Si è appellato all’onu facendo riferimento ai
baschi e al Canada. Ha imposto ai suoi un linguaggio che distingue sistematicamente tra italiani e
padani. Ha cercato nei gazebo una legittimità alternativa. Ha proclamato parlamenti, governi, capitali.
Ha indetto elezioni. Ha invitato lo Stato italiano a «trattare» tempi e modi dello sganciamento del Nord.
In un Paese che considera il presunto bacio di Andreotti alla pari del bacio di Diana, come «la polemica
dell’estate» [sic], è chiaro che pu accadere tutto, ma che cosa mai dovrà ancora dire o fare Bossi per
essere preso finalmente sul serio? Il caso Venezia illumina a giorno questa pazzia del sistema politico.
Il Polo considera Venezia l’esca di un accordo nazionale con la Lega Nord, per battere l’Ulivo. Non
pone condizioni, nemmeno l’abiura del secessionismo: al Polo basterebbe che Bossi alleggerisse un po’
la pressione. Meno Pontida, più Montecitorio, tutto qua: l’indipendenza a voce bassa, senza dare
nell’occhio. Bossi se ne frega, oggi con il Polo come ieri con il pds. Non accetta paternali, mea culpa
federalisti, moratorie separatiste. Va sull’Aventino o piomba in Bicamerale nella stessa logica di
disturbo. Venezia val bene una giunta di destra, a patto che non implichi per lui condizioni, dietrofront,
doroteismi, nemmeno diplomazie di mezza estate. «Possono attaccarsi al tram», ha cesellato ieri
rivolgendosi al Polo, prendere o lasciare. Il fatto è che Bossi considera Venezia un caso locale, non
nazionale o, meglio, nazional-padano. Serve alla Lega solo per rafforzare il secessionismo nel Veneto,
anche se il Polo finge di non saperlo o s’illude di disarmarlo nella pratica del potere. Dopo lo choc del
campanile di San Marco, Bossi si è convinto che l’autonomismo veneto resta troppo forte per essere
lasciato ai veneti. La Padania di Bossi teme il localismo quanto il centralismo, perché gli insidia
dall’interno l’unità lumbard. Perci il Veneto, nei piani di Bossi, deve ritornare in tutta fretta a essere un
addendo padano, senza tentazioni frazioniste, cioè localiste: la poltrona di Cacciari ha carisma, pu
servire. Altro che rinuncia alla secessione! Venezia ne risulterebbe più che mai la capitale del
secessionismo. Luogo di adunate a settembre e di alleanze a novembre, di lotta e di governo, di piazza
e di municipio, capace di tenere insieme ogni anima leghista, lo zoccolo duro pronto «allo scontro con
l’Italia» e i gradualisti. Questo sarà nei prossimi tre mesi, Venezia. Quando chiede di «trattare con
Roma», Bossi sa benissimo che non se ne fa nulla, per una ragione molto elementare. Si tratta, semmai,
sul federalismo, per via politica, con la mediazione o con il voto, secondo le regole della democrazia.
Non si tratta a tavolino sulla secessione che, nel contesto storico e culturale italiano, appare la meno
«consensuale» che si possa immaginare al mondo. In realtà, Venezia metterà a nudo un altro dilemma,
davvero nazionale in tal senso: il ruolo del Veneto. Se il secessionismo è – come da tempo è – autentico
e se Bossi ha tutto il diritto di essere preso per quel che dice, l’aerea unanimamente indicata come testa
di ponte, laboratorio, epicentro della questione settentrionale, dovrà prestissimo decidere da che parte
stare. In quale futuro credere, tra riforma e frattura, tra modernizzazione e rischio etnico, anche tra
moderatismo ed estremismo di centro. La secessione nasce da un’idea punitiva di Italia. Non c’è una
via di mezzo, parola di Bossi. Tocca al Nord, a cominciare dal Veneto, manifestarsi con altrettanta
chiarezza, senza furbate elettorali o sepolcri imbiancati dal potere. Anche a costo, come pare
intenzionato l’Ulivo, di perdere un mare di confortevoli vantaggi locali. Visto che l’«eversione»
politica (concetto espresso ieri dallo stesso Bossi) si è fatta via via programma, senza retromarcia
alcuna o ripensamento, da almeno sedici lunghi mesi, il separatismo perde ogni neutralità. Nel senso

che traccia steccati sia politici che amministrativi: una jattura necessaria. Esorcizzare la secessione non
serve, usarla è pericoloso, ignorarla farebbe torto soprattutto a un’area come il Veneto che da tempo
aspira a guidare il riformismo nazionale. Qui si misura il vero pil. Un vero ceto dirigente da destra a
sinistra, compreso il leghismo tuttora federalista. Non la tattica dei partiti: soltanto un grande moto di
opinione pubblica e di buongoverno pu riportare Bossi, per realismo, alle riforme. Se sfrutteranno il
secessionismo di Bossi per una poltrona di sindaco, anche i moderati potrebbero scoprire un giorno che
Venezia è gemellata a Sarajevo. Negli incubi.
13 agosto 1997