1996 ottobre 16 Il partito del Nordest

1996 ottobre 16 – Il partito del Nordest
Il Nordest ha fame di rappresentanza, teme di diventare un’«espressione geografica». Lo fa da tempo,
ma mai come in queste ore si chiede se la voglia di farsi un partito sia un’utopia o un’idea forte:
un’utopia, cioè un non luogo, o un luogo possibile della politica. Il Nordest ha fame di rete, di sistema,
di sintesi, di punti di coagulo, di leader. Dopo la lunga pax dorotea, vive da tempo lo stress riformista.
Ha azzerato tutto. I Rumor, Bisaglia, Bernini, De Michelis, la pinacoteca del vecchio potere. Ha
ridimensionato Berlusconi, riserva a Prodi uno sguardo obliquo, scansa l’ultimo Bossi. Politicamente, il
Nordest sta respirando in apnea. Attende le riforme con una radicalità di cui, forse, non si riteneva fino
all’altro ieri capace. La radicalità è figlia della disillusione. «Ogni giorno che passa, mi convinco che
all’Italia servono dosi di riformismo sempre più massicce»: a dirlo è lo stesso presidente degli
industriali del Veneto, Mario Carraro, uomo di mondo e di buone letture, prima azienda
metalmeccanica della regione con stabilimenti in India e presto in Turchia. Carraro ce l’ha con Amato e
Bertinotti. Non è «equivoca» la parola federalismo, ha ribattuto in tv, sono equivoche le interpretazioni
del federalismo all’italiana. Soprattutto da parte di chi non lo vuole. I Carraro sono milioni. Il gene del
Nordest è oggi federalista, qui nessuno può fare politica senza partire da questa premessa. Se Maurizio
Gasparri si presenta in provincia di Treviso per un comizio, deve abbinare «il presidenzialismo al
federalismo»: a Nordest, anche i presidenzialisti di Alleanza nazionale debbono fare i conti con quel
gene. In fondo, l’idea di farsi un partito del Nordest nasce dalla disperazione e dalla fatica. La crescente
fatica di tenersi assieme come area, la fiducia calante nelle riforme romane. Il Nordest si sente in
ostaggio anche del secessionismo. Il suo federalismo unionista, buono per il Nord quanto per il Sud, ha
due nemici: Roma e la Padania. Se Roma è lo status quo, la Padania la fuga da noi stessi. Si sente molto
solo il Nordest nel proporre una terza Italia, né centrale né separata, in grado di far esplodere l’enorme
potenziale a disposizione sul territorio. Ma cova la rabbia di chi non ce la fa a dare peso, respiro, alleati
alla sua formula di federalismo nazionale. Ha detto giorni fa il rettore di Ca’ Foscari, professor Paolo
Costa: «Il cosiddetto partito del Nordest ha una sola possibilità su cento di prendere corpo e una sola
filosofia possibile. Badare non agli interessi del Nordest, ma a quelli dell’intero Paese, ben sapendo che
solo lavorando per quelli alla fine farà anche i suoi». Quasi manifesto di un soggetto politico per ora
del tutto virtuale. Più che decifrare la cosa che non c’è, diventa interessante capire perché il Nordest ci
pensi e, chissà, ci provi. I ceti dirigenti avvertono la dispersione del modello: quello che fu il detonatore
del capitalismo diffuso, in questa fase mostra la corda, non aiuta a rassodare iniziative. La produzione
non incontra la politica, il lavoro manca di progetto. Per la prima volta, il Nordest vive un malessere
alto, che fa riflettere a fondo sul proprio ruolo. Che fare?, la stessa domanda trova l’artigiano accanto al
ricercatore universitario, il professionista al coltivatore diretto. Il «caso» sta tutto in questa trasversalità.
Qualche mese fa chiesero a Eugenio Scalfari di indicare le due priorità per il governo Prodi:
«Occupazione e Nordest», fu la risposta. Un’area presa a metafora della questione settentrionale,
immaginando che col rispondere alle ragioni del Nordest si potesse imboccare la via d’uscita della
questione nazionale. Quando, tra mille entusiasmi e altrettanti dubbi, il Nordest ipotizza un partito tutto
suo, abbiamo la prova provata che quella via non è stata ancora imboccata, tanto da spingere a farsi un
movimento specializzato in riforme. A guardar bene, un segno di vitalità territoriale ma anche di
infinita preoccupazione.
16 ottobre 1996