1997 aprile 30 C’era una volta la Padania

1997 aprile 30 – C’era una volta la Padania
Una cosa politica il voto amministrativo l’ha detta: la Padania non esiste più. Non come suggestione,
non come luogo etnico, non come territorio unitario. Umberto Bossi l’aveva inventata a tavolino,
rovistando nel sottoscala dei miti celtici e dandole gli stessi confini del voto leghista. Di colpo, la
Padania diventa un non luogo anche per la Lega: il suo Nord risulta sempre più confinato, emarginato.
Non ha più la capitale, Milano. Da Torino a Trieste, da ovest a est, raccoglie consensi da pentapartito,
non più da «partito del Nord». Il sei per cento a Torino, il quattro per cento a Trieste. Il Nord di Bossi
diventa sempre più piccolo, sempre più pedemontano; l’altro Nord torna a essere sempre più esteso. La
secessione, che doveva separare il Nord dall’Italia, ha diviso soltanto il Nord. Il partito del territorio
perde territorio, perde Province, da Pavia a Mantova a Gorizia. Non gli funzionano più nemmeno i
simboli: Pavia la longobarda, Mantova la capitale del parlamento del Nord. Il 21 aprile 1996 Bossi
aveva lanciato il separatismo, il 15 settembre 1996 il «dio Po». A un anno di distanza, il 27 aprile 1997,
quella Padania dal Monviso a Venezia ha perso per strada pezzi, senso, futuro. Oggi la Padania torna a
essere uno dei «paesaggi umani» del vecchio Touring Club; al massimo, una testata giornalistica della
Lega: nulla più. Al di là della conta dei sindaci e dei Comuni persi, conservati o conquistati, è questo il
pugno nello stomaco di Bossi. Il suo Nord assomiglia a una ridotta, non «rappresenta» il Nord perché
ha scelto l’isolamento. La solitudine della Lega era una forza quando identificava senza commistioni la
protesta e la modernizzazione del federalismo. Oggi è un boomerang, segnala la sconfitta, una strategia
nel cul de sac. Il turpiloquio politico di Bossi («facce di merda», «stronzi») non è più una furbata
semantica, la ricerca di un linguaggio popolare, anti e oltre il sistema cifrato di Roma. No, in questa
fase certifica il fallimento, esattamente l’usura del linguaggio, la sua perdita di senso. Invoca la
rivoluzione in un Nord che non ci pensa nemmeno. Il Nord europeo e ricco non andrà «in montagna»,
né al ballottaggio né con le armi in spalla. Questo Nord, come ha chiarito Giorgio Bocca, e come ha
riconosciuto lo stesso Formentini, è anzi la metafora dell’integrazione italiana Nord-Sud. Dunque
un’area per definizione aperta, antiseparatista, pronta semmai a superare i confini non a inventarne di
nuovi. Milano accoglie, mai espelle, mai. Fuori della Bicamerale, mezzo sull’Aventino in Parlamento,
in montagna l’11 maggio, Bossi cancella con le sue stesse mani la rispettabilità politica che si era
costruito tra il 1994 e il 1996 con Pivetti alla presidenza della Camera, con Maroni agli Interni,
soprattutto con l’appoggio al governo Dini. Il suo insopportabile conato antimeridionalista fa di peggio:
accredita un razzismo che la stessa Lega, con un lavoro di anni, aveva fatto di tutto per allontanare e
smentire. Bossi interpreta il voto di domenica come un via libera alla secessione, l’ora x dello zoccolo
duro, la morte della fase amministrativa e l’alba della lotta di liberazione. Il suo quotidiano, «La
Padania», scrive ieri in prima pagina che «Chi ha votato Lega il 27 aprile 1997 ha detto sì alla
secessione». Non è così, come si dimostra ampiamente a Nordest, in particolare nel Veneto. Il miglior
risultato (a Oderzo, diciottomila abitanti, nel Trevigiano) lo ottiene un deputato-sindaco, Giuseppe
Covre, il cui vanto maggiore è di non aver mai usato il termine secessione. A Nordest, l’estremismo
non ha affatto vinto. A Trieste, città medaglia d’oro dell’unità nazionale, la Lega è quasi scomparsa. A
Belluno un sindaco di sinistra, dichiaratamente federalista come Maurizio Fistarol, ha prosciugato due
terzi dell’elettorato leghista. E in Friuli, a Pordenone, la Lega è almeno andata al ballottaggio con un
sindaco uscente, Alfredo Pasini, sulle stesse posizioni di Covre. Non è finita la Lega Nord, è finito il
secessionismo. Non è passato il «male del Nord», ha chiuso i battenti la Padania. Il federalismo ha un
futuro, il separatismo lo condanna. Un atto di coraggio e di realismo pu riconsegnare la Lega e il suo
Nord alle riforme. La fuga nella rivoluzione non finirà come spera e/o teme Bossi: lui non sarà un
martire, soltanto un detenuto.

30 aprile 1997