2004 marzo 30 Tasse

2004 marzo 30

Durante la campagna elettorale della primavera del 2001, Silvio Berlusconi puntò quasi tutto sullo
slogan “Meno tasse per tutti”. Se tre anni dopo ripete ogni santo giorno che occorre ridurle di
brutto, vuole proprio dire che finora non ce l’ha fatta.
Alla vigilia delle stesse elezioni, Berlusconi prese con gli italiani un secondo impegno concreto;
testualmente, ”Un buon lavoro anche per te.” In una lettera a domicilio inviata a tutti gli elettori il
futuro presidente del Consiglio chiarì che, per strappare sette milioni e mezzo di concittadini
dall’indigenza, era necessario creare nuovi posti di lavoro. S’impegnò cioè a far lavorare “anche” i
disoccupati e i sottooccupati senza rinfacciare agli occupati di lavorare troppo poco: quest’ultima é
la novità del Cavaliere stakanovista.
In sintesi, Berlusconi ha sempre promesso di abbassare le tasse ma non ha mai invitato gli italiani a
“lavorare di più” come ha fatto per la prima volta in queste ore irritando perfino gli alleati di
complemento Fini e Follini, eternamente a caccia di una “collegialità” che non otterranno mai. In
genere, loro apprendono le cose che contano dai giornali.
D’altra parte Berlusconi si é definito “l’imprenditore d’Italia” ma anche “il presidente operaio”,
mentre non riesce a celare la sua fisiologica allergia verso i “politici di professione” che spesso
conoscono l’economia attraverso le mini enciclopedie Garzantine Piaccia o no, la sola collegialità
che gli sta cuore é tuttora quella con Tremonti, il quale appare meno sulla scena televisiva anche se
conta come prima garantendo a scatola chiusa il placet politico di Bossi.
Certo, non si capisce che cosa pretenda Berlusconi con il suo “occorre lavorare di più” rivolto a un
Paese come l’Italia che ha avuto nel lavoro la sua sola miniera d’oro e che si dichiara non per nulla
“fondata sul lavoro” nel primo articolo della costituzione repubblicana. Gli italiani lavorano meno
dei cinesi e degli indiani – in fase di boom sregolato – ma lavorano più dei francesi, dei tedeschi e
degli inglesi se vogliamo stare con i piedi per terra in Europa.
Ma poi dovremmo metterci una buona volta d’accordo sul tipo di società che inseguiamo.
Soprattutto gli economisti di scuola liberista, cari a Berlusconi, esaltano da anni il tramonto della
vecchia tradizionale “forza lavoro” a vantaggio del lavoro creativo, flessibile, terziario, part time,
instabile, basato soprattutto sulle neo-materie prime della tecnologia, dell’informatica e delle risorse
intellettuali. C’é chi ha immaginato addirittura una società dei servizi e del tempo libero fino a
profetizzare la “fine del lavoro”. E chi, di tutt’altra scuola, sogna meno lavoro per tutti purché tutti
lavorino.
Una sola cosa pare scontata: in Italia le tasse non c’entrano un tubo con l’orario di lavoro.
Affermare, come fa invece il presidente Berlusconi, che quelle potranno diminuire solo a patto che
gli italiani lavorino di più equivale a confessare che le tasse resteranno così come stanno.
Ci voleva tanto ad ammetterlo senza nuovi slogan arrampicati sugli specchi elettorali?