1994 gennaio 23 Via dal passato remoto
1994 gennaio 23 – Via dal passato remoto
Nascono partiti come funghi, com’è naturale quando tutti abiurano il proprio passato o se ne vergognano.
I nostalgici dell’Italia imbalsamata perdono la testa perché alle incognite di ogni transizione preferiscono
la poltrona frau del  potere. Ne stiamo  uscendo,  ed è una bellezza che va  gustata  fino in  fondo.  Indro
Montanelli teme che prevarrà l’«ennesima ammucchiata di rottami e di magliari»; ma allora perché mai
a 85 anni ha ancora tanta voglia di dar «Voce» a una certa idea di Italia? Se pochissimi italiani fecero il
Risorgimento,  oggi  le  élites  servono  a  ben  poco.  Un  po’  perché  si  sono  sputtanate  fino  al  midollo
mescolando in vent’anni politica, affarismo, Stato e mafia. Un po’ perché l’Italia dei capitani d’industria,
dei  «razza  padrona»,  dei  notabili,  dei  salotti  buoni,  delle  P2  e  di  un  milione  di  professionisti  della
partitocrazia è allo sbando. Per la prima volta questa è davvero l’Italia a suffragio universale. Che sposta
milioni di voti. Che si riconosce nell’economia diffusa contro il mito dei grandi gruppi pubblici o privati.
Che affida la qualità della democrazia al fisco, al lavoro, ai servizi, al prezzo dei farmaci, all’aria che si
respira nelle città, all’efficienza della scuola. In questo momento fanno tutti i furbi. Da Occhetto a Fini
sembrano il partito unico dei liberal-democratici, ma bisogna anche capirli. Il comunismo ha ottenuto i
risultati che sappiamo, il fascismo è una sconfitta senza appello. Gli eredi di Don Sturzo, De Gasperi e
Turati hanno inventato Tangentopoli. I laici hanno fatto i guardoni dei sistema. L’insieme della politica
italiana  si  sente  orfana  anche  di  cultura,  ma  almeno  ha  intuito  che  deve  ripartire  da  qualcosa  che  ha
sempre disprezzato: esattamente la tradizione liberal-democratica. Fino a ieri minoritaria, oggi prodotto
di massa tutto da precisare. Ma da qui al 27 marzo non ce la faremo a scegliere in base ai programmi: ci
sembreranno tutti uguali, come accadde al ballottaggio per i sindaci. In questa fase di passaggio dalla
prima  alla  seconda  Repubblica,  risuscita  il  voto  per  schieramento  di  cui  era  stata  celebrata  la  morte
prematura.  Non  lo  schieramento  per  muro  o  ideologia.  Piuttosto,  un  fronteggiarsi  emotivo  più  che
politico, fondato per ora sulle attese più che sulle verifiche. Non la sinistra e la destra secondo l’abc della
cultura marxista o della parrocchia democristiana, entrambe al macero. Una scelta più terra terra, che
misurerà soprattutto la garanzia del cambiamento: dividersi tra «progressisti» e «moderati» sul quanto e
sul come della fuga dallo Stato delle iniquità, dei segreti, dei privilegi, dell’inefficienza, del malgoverno.
Le  parole  d’ordine  contano  zero.  Basti  pensare  che,  nel  solo  mondo  cattolico  richiamato  all’unità,  si
presentano cinque opzioni: la Rete di Orlando, la Lega di Bossi, il Patto di Segni, il Partito Popolare di
Martinazzoli, i neocentristi  di  Casini  per non parlare dei  cristiano-sociali  che hanno scelto la sinistra.
Soltanto l’uninominale può aggregare ciò che la rivoluzione ha frantumato, dal Pci alla Dc fino all’Msi.
Il passato remoto non è più tra noi.