1980 ottobre 15 Bisogna mettere all’ala la mentalità!

1980 ottobre 15 – Bisogna mettere all’ala la mentalità!

L’ha detto l’altra sera paolo Rossi, in chiusura del tele-processo del lunedì alla Rai 3: il
problema del calcio italiano e della nazionale è la «mentalità».
Concordando pienamente con tesi più volte ribadite dallo stesso Sergio Campana, che
pur è il sindacalista dei calciatori, Rossi ha confessato una cosa condivisa da milioni
di sportivi italiani: quando si vedono partite come Germania – Olanda, o in generale
partite europee, sembra di essere «in un altro mondo».
Un mondo dove c’è ancora gusto ad assistere a una partita senza sprofondare in
poltrona davanti al televisore o senza uscire in largo anticipo dallo stadio. Un mondo
dove il calcio è più rapido e più offensivo; dove le marcature sono meno fiscali; dove
il gol è ancora una piacevole violenza; dove ci si picchia sul sodo senza tanta isteria;
dove non si impiega un quarto d’ora per piazzare la barriera.
In poche parole, «un altro mondo del calcio» perché più tirato e arrembante. Avete
visto qualche volta il centravanti tedesco Hrubesch, il gigante che sfonda in centro
area con una potenza tipo vecchio John Charles della Juve anni ’50? Beh, io credo che
in Italia, dove proprio la Juve tentò di portarlo la scorsa estate, andrebbe
probabilmente sprecato. Perché Hrubesch va sui cross, quelli veri, tesi, perforanti, di
lato, non quelle molli pappardelle che calano nel mucchio delle nostre aree di rigore
costringendo i centravanti a fare la figura dei bignè alla crema tra le capoccione dei
difensori.
É questione di mentalità. É la mentalità che va messa all’ala della nazionale, altro che
Causio-sì o Causio-no, quasi che il puzzle azzurro stesse tutto nel tassellino fuori fase
di un ruolo.
É una mentalità viziata quella italiana, dove quasi nessuno riesce più a insegnare
nulla, dalla serie C fino alla nazionale. Paolo Rossi, spettatore forzato di molte partite
di serie B, mi assicura che il suo livello tecnico è impressionante, in senso negativo
beninteso. Massimo Giacomini afferma che il nostro è un campionato per «malati»,
con sole 30 partite di serie A quando in Inghilterra si sorbono 42 partite senza fare
una piega.
Domenica scorsa, in Mestre – Padova, ho assistito ad un unico lampo tecnico-tattico:
Speggiorin che apre lungo, improvviso e secco, per il libero Pagura che si stacca da
ala destra. Il cross è esemplare, all’anglosassone, un fendente sul quale torna voglia
persino a me di buttarmi dalla tribuna. Macché! Silenzio al centro area, come
stupefatti, non abituati. É il silenzio del lavoro, di maestri senza fantasia, fermi tutta la
vita ai giri del campo, a quattro scalini e alla partitella.
L’ambiente italiano è tarlato, sclerotico, ripiegato su se stesso, ottuso. Nasce anche
qui la difficoltà a cambiare un giocatore o a ringiovanire un ruolo della Nazionale.
Perché l’aggiornarsi e l’essere pronti a cogliere nuovi stimoli non è una questione di
uomini o deformazioni, ma di metodo.
Il difetto di Bearzot non è la squadra, ma il suo metodo, come se il Ct soffrisse di
mammismo azzurro. Si lega ai suoi gioielli più di Cornelia: solo che, quali figli, non
ha i Gracchi, ma molto più semplicemente professionisti di pallone.