1990 marzo 7 L’ineluttabile

1990 marzo 7 – L’ineluttabile

Soltanto la svolta di Occhetto fa i conti con la storia

É stato Occhetto a dire che non era importante il «nome» ma la «cosa». Invece,
diventa decisivo tutto, sia la cosa che il nome: all’anagrafe della politica
italiana, o il Pci nasce una seconda volta o si destina all’inutilità. Soltanto se
discontinuo con il passato, può organizzarsi un avvenire.
Per la prima volta nella sua storia, il Pci si lacera come qualsiasi altro partito.
Le famigerate correnti non sono più una prerogativa degli avversari; sono il
risultato dell’irrompere della grande crisi fin dentro l’ultima cella dell’apparato.
Il Pci dimentica per strada la diversità, la militanza, l’ideologia, la disciplina;
assieme al nome, al simbolo, alla bandiera e all’inno, tenta di liberarsi di
quell’anomalia europea che è la sua forma-partito. Una chiesa rossa, una visione
del mondo dalla culla alla bara, tutto ciò è di colpo in gioco.
Ai diecimila congressi di sezione che hanno preparato l’assise straordinaria di
Bologna, 400 mila iscritti hanno votato, un milione non ha partecipato. E il 34%
ha detto no alla proposta di rifondazione, quella che Cossutta chiama «lo
scioglimento del Pci». Per Occhetto nulla è stato e sarà facile, ma non aveva
scampo.
Se il cambiamento è una scommessa, l’immobilismo gli assicurava soltanto il
declino. Si fa un gran discutere per quantificare l’influenza della rovinosa crisi
dell’Est sul travaglio del Pci, dimenticando l’aspetto determinante: che cosa ha
radicalmente svelato l’Est?
Che non è crisi di una forma di comunismo; che a fallire non è stata la realtà di
un comunismo; che non esistono più vie nazionali al comunismo. L’Est era il
comunismo, l’unico possibile, l’unico coerente con la dittatura del proletariato,
con la concezione di del partito-Stato, con la filosofia del leninismo. L’Est non
ha pagato lo stalinismo, ma esattamente il «paradiso socialista», pianificato,
burocratico, nella teoria come nella prassi negatore dell’idea stessa di
democrazia parlamentare, pluralista, nella quale i conflitti sociali tendono per
definizione a disarmare a lotta di classe.
Questo ha insegnato il comunismo reale, realizzato, il solo credibile. Ed è
questa la lezione che Occhetto ha imparato alla svelta: non esistono più indizi
che un sistema comunista possa sfuggire al suo gene illiberale, se non a patto di
negarsi alla radice e di trasformarsi, non tanto in un altro comunismo, quanto in
un sistema non comunista.
Il Pci ha avuto due grandi alleati, la democrazia cristiana e l’Est. La prima gli ha
consentito di maturare negli anni strappi e strappati dell’ortodossia; il secondo
ha cancellato di colpo anche le più pigre illusioni. Non si può tagliare la storia a
fettine: il Pci fa gli ineluttabili conti con tanti segni dei tempi, dei quali
Occhetto è testimone né cieco né sordo.
Può esserci dell’opportunismo, anche del
trasformismo, ma sarebbe
stupefacente se così non fosse, e chi in Italia potrebbe mai scagliare la prima
pietra? É più onesto prendere atto che il Pci si sta oggi impegnando a recidere il
cordone ombelicale con un passato che lo aveva auto-escluso per legittima
suspicione.
Ieri non aveva tutte la carte in regola, domani se ne potrà giocare di nuove
all’interno di una sinistra che non sarà più quella di prima. Il filosofo Massimo
Cacciari ha suggerito a Occhetto che la nuova formazione post-comunista

abbandoni la «mera agitazione demagogica anti-socialista»; sarà un passaggio
centrale, evitando il quale i discorsi sull’alternativa o sull’alternanza di governo
diventano farneticazioni.
Nessuno è in grado di fare il profeta quando le spinte sono tante e la velocità dei
cambiamenti rende più che mai complessa la politica. Ma una prima cosa si può
dire: il nuovo Pci dovrà inventarsi un’opposizione senza comunismo. L’unica
rivoluzione che ha potuto fare dal 1921 è questa, di riconsegnarsi senza

renitenza al socialismo europeo. Una doppia fortuna, ieri e oggi.