1990 maggio 7 Lo sguardo di Carlo non è una faccenda di famiglia

1990 maggio 7 – Lo sguardo di Carlo non è una faccenda di famiglia

Guardiamo questo ragazzo come tanti, prima e dopo. Guardiamo i suoi occhi di due
anni fa e quelli di ieri: sulla sua vita è passata la tortura, la vigliaccheria, la perfidia,
l’inganno. Era un ragazzo, non lo è più. L’hanno svuotato. Gli hanno consentito
soltanto di pregare e di sognare. Gli hanno per oltre due anni sequestrato persino la
fiducia nel padre, facendogli credere di non valere nulla, nemmeno un riscatto.
«Maledetti», ha detto il fratello di Carlo Celadon, usando un aggettivo biblico. Su
Carlo, come su innumerevoli altri sequestrati, si è esercitata una ferocia da lager,
dove il male utilizza la sottigliezza. E più di sessanta non sono più stati restituiti.
Nel guardare le fotografie e le immagini televisive confessiamo una miscela di
commozione e di rancore. Certe volte, quanto è difficile respingere in noi stessi la
tentazione della pena di morte; certe volte, quanto è duro appellarci alla pietà
cristiana e all’umanesimo della ragione per lasciar prevalere nella società la
giustizia sulla vendetta, la legge dello Stato su quella della giungla, l’utopia della
misericordia sulla realtà della violenza.
Lo sguardo di Carlo Celadon non è una faccenda di famiglia. Va dritto al cuore del
nostro consorzio civile, ne mette a nudo l’imbarbarimento, condanna lo Stato.
Svela il potere di chi potere non dovrebbe avere.
Ma
il
permissivismo legislativo e giudiziario, il radicamento sociale del crimine. E,
anche, la spietata smemoratezza di chi usa i tempi lunghi per favorire i carnefici e
dimenticare le vittime.
Non c’è soltanto l’Aspromonte negli occhi di Carlo Celadon. C’è qualcosa di
peggiore, una malattia che si annida tra di noi e sulla quale il delitto scoppia di
salute.

immagini affollano questo momento. Le pene disapplicate,

tante