1990 luglio 8 Cronaca nera

1990 luglio 8 – Cronaca nera

Quando la legge spinge il cittadino a non capire

In un bel libro di una quindicina di anni fa («Italia») Enzo Biagi domandò a un
celebre avvocato e a un giurista: «Se fosse accusato di un delitto, da quale tribunale
preferirebbe essere giudicato?». L’avvocato rispose: da una corte inglese, perché
qualunque imputato è trattato allo stesso modo della regina; il professor Giulio
Vassalli, oggi ministro di Grazia e Giustizia, spiegò: anche se i nazisti mi
condannarono a morte, opterei per un tribunale tedesco perché oggi la Germania è
un paese civile.
Non ci sono santi. Il primissimo grado di «civiltà» di un Paese passa attraverso la
qualità dei suoi codici, dei suoi giudici, dei suoi processi. La certezza del diritto,
dalle indagini fino alle pene, non è un valore astratto, sul quale dissertare in aula fra
ermellini e guardasigilli: rappresenta un bisogno popolare, la vera e propria fame di
giustizia, un bene primario. Perciò tutti i fatti che possono screditare la magistratura
agli occhi dell’opinione pubblica sono anche più preoccupanti della caduta di
fiducia nei confronti della politica.
Non sappiamo come Vassalli e quel penalista risponderebbero alla domanda posta
allora da Biagi, ma si può senza dubbio affermare che la giustizia sta vivendo un
momento delicatissimo, di grave incertezza e di difficoltà a farsi capire dai
cittadini. Che cos’è il rischio di delegittimazione del diritto se non il suo isolamento
dalla vita?
Che i cittadini comprendano sempre meno e sempre più di rado lo dimostra la
cronaca, cioè il solo linguaggio con il quale un corpo sociale racconta di giorno in
giorno se stesso. Prendiamo a campione due notizie contestuali, a Padova.
I carabinieri pizzicano un ladro mentre sta forzando il lucchetto di una tra le mille
biciclette parcheggiate presso una piscina: colto sul fatto, in flagranza di reato, lo
arrestano in attesa del processo per direttissima. Tutto regolare se non fosse che,
sempre ieri, in prima pagina pubblichiamo una delle storie più turpi degli ultimi
tempi: un pedofilo denunciato dai carabinieri, querelato dai genitori, fotografato in
situazioni irriferibili con le sue piccole vittime, in parte reo confesso, ma ancora
libero.
Ora, noi non ce la prendiamo con carabinieri e magistrati che hanno egregiamente
indagato; noi vorremmo soltanto capire. Perché, tra il ladro e il pedofilo, i
meccanismi di legge e le circostanze finiscono con il favorire il crimine di gran
lunga più rilevante socialmente? Perché il «concreto pericolo» che «la personalità
dell’imputato» possa spingere a commettere «reati della stessa specie» (art. 274 del
nuovo codice di procedura penale) non determina l’immediato arresto del pedofilo?
Di sicuro esisterà una qualche spiegazione se le misure coercitive ancora non ci
sono; di sicuro il codice consentirà margini di discrezionalità; di sicuro in qualche
fascicolo si potrà leggere che ogni passaggio rispetta le procedure. E tuttavia
nessuno può accettare una società tanto disarmata, tanto esposta e confusa.
C’è qualcosa di malato se la giustizia indebolisce la percezione del diritto; se il
codice finisce con l’apparire una variabile impazzita della comunità. Quando poi il
carceriere e la vivandiera di Cristina Mazzotti, condannati rispettivamente

all’ergastolo e a 25 anni per sequestro e omicidio, scompaiono dopo aver ottenuto
20-23 permessi di uscita dal carcere; quando può godere della semilibertà un
pluripregiudicato della sanguinaria banda Vallanzasca, è chiaro che la legge mina la
società e privilegia il crimine, anche il più odioso.
I politici non amano i magistrati, e questo sarebbe un bene per l’autonomia; li
preferiscono politicizzati, e questo è un dramma per la democrazia. Ma sarà ancor
peggio se, accanto a questo perverso attacco, la magistratura si arrenderà anche al
generale clima di non punibilità.