1990 agosto 12 Il detonatore

1990 agosto 12 – Il detonatore

Hitler, ladro di Bagdad, gangster, pazzo: sono gli epiteti che l’Occidente ha
riservato a Saddam Hussein. É una semplificazione micidiale quanto i gas
nervini e sta ancora una volta a dimostrare che noi occidentali siamo incapaci di
considerare il Golfo e dintorni qualcosa di più di un giacimento di petrolio.
Ad ogni buon conto, non è il matto che ha creato il problema; semmai è il
problema che ha generato l’ultimo matto dell’area. Un’area dove Stati e territori
sono aleatori: molti confini, dal Kuwait alla Giordania, li ha praticamente
inventati l’Inghilterra; Israele ha provveduto da solo; in compenso, popoli come
il palestinese o il curdo sono sfrattati, senza fissa dimora.
Le ombre lunghe del colonialismo europeo stentano a svanire anche perché il
petrolio ha alimentato un nuovo nazionalismo di tipo classista. Da un lato
sceicchi e Paesi grandi succhiatori del deserto, ricchi sfondati, colonne della
finanza mondiale, consumati secolarizzatori dell’Islam; dall’altro, colonnelli e
regimi alle prese con masse diseredate di volta in volta fanatizzate su
rivendicazioni territoriali e sempre più pronte a riscoprire nell’Islam un mito. Il
solo liberatorio (verso l’esterno) e unificante (verso l’interno); endemicamente
rivoluzionario.
Grande come il Veneto, poco più di un milione di abitanti con il più alto reddito
pro-capite al mondo, il Kuwait rappresenta la cerniera debole del sistema, il
simbolo della precarietà, una frontiera artificiale delle divisioni arabe. In questo
senso, Saddam Hussein appare soltanto il detonatore di turno di una crisi che
viene molto da lontano e che, probabilmente, la fine del monolitico schema
Usa-Urss rende più centrifuga. Fino a ieri si sapeva sempre chi stava dietro a
chi e perché; oggi la scena del mondo si popola di cani sciolti, dunque di
avventure di Stato.
Se non si guarda a fondo oltre le apparenze della «follia», tutto risulterà astruso
e insensato, a cominciare dalla repentina trasformazione dell’Iraq da Paese
provvidenziale (che colpisce l’Iran di Khomeini) a Paese incubo (che scippa in
un colpo solo Stati, energia, diritto internazionale). Il «quarto esercito del
mondo», secondo la valutazione di Bush, è stato armato fino ai denti sia da est
che da ovest, in particolare dalla Francia che lo considera un ottimo cliente con
il quale stava ancora trattando una commessa di 50 Mirage 2000. Di Saddam
Hussein volevamo fare un gendarme contro il fondamentalismo; ma ora ha
cominciato a lavorare in proprio.
Nel Golfo la crisi è gravissima perché miscela una quantità esasperata di
interessi e frustrazioni, confonde i barili con il Corano, fa precipitare in un
punto e in un leader un nugolo di problemi irrisolti. L’Iraq è solo, carico di
petrolio che non può vendere e di debiti che non sa pagare; confina con la Nato,
con l’Iran, con le truppe Usa e con le flotte di mezzo mondo; rischia lo
strangolamento per fame vera visto che importa il 75% dei cereali e molte
derrate persino dagli Stati Uniti.
Poiché si trova in una situazione schizofrenica, può tutto, anche il peggio. E il
mondo è condannato a reagire prima che sia troppo tardi, ma non senza
ricordare che altri Hussein si alzeranno all’orizzonte fino a quando il petrolio

sarà soltanto un’arma sui mercati, non una fonte di sviluppo anche per gli arabi.