1990 gennaio 11 Allarme Giustizia

1990 gennaio 11 – Allarme Giustizia
«Intere regioni sono in mano alla mafia»
«Raggiunti livelli di vera carneficina»

Mentre a Roma l’apertura dell’anno giudiziario faceva il punto sullo stato della
giustizia italiana, giungeva in redazione una notizia di dieci righe dell’agenzia di
stampa Ansa da Vibo Valentia, in provincia di Catanzaro: «Due detenuti – vi si
leggeva – non sono rientrati in carcere dopo una licenza premio. Uno era stato
condannato per spaccio di stupefacenti, l’altro per omicidio».
La cronaca di tutti i giorni dimostra che lo scandalo è oramai la regola: l’intreccio
fra leggi superficiali, menefreghismo del ceto politico e paurosa insufficienza di
mezzi a disposizione della magistratura stanno rovinando qualsiasi rapporto di
credibilità del cittadino nei confronti dello Stato. Nelle ultimissime ore sono già
stati scarcerati i due sequestratori della studentessa Esteranne Ricca, rapita in
Maremma soltanto tredici mesi fa.
Cerchiamo di metterci nei panni delle forze dell’ordine, e troviamo francamente
miracoloso che riescano ancora a rischiare la pelle per questa giustizia. Ci
mettiamo nei panni dei magistrati, e a stento riusciamo a capire dove la
stragrande maggioranza d’essi conservi ancora la voglia di superare con il
sacrificio personale le omissioni civili di un Paese europeo soltanto nel fatturato
economico. Guardiamo a chi collabora e testimonia in nome della giustizia, e ne
siamo ammirati per la tenacia sociale contro tutte le tentazioni del disimpegno e
del qualunquismo.
Non occorreva attendere l’inaugurazione dell’anno giudiziario per sapere come
stanno le cose, ma fa sempre una cruda impressione sentirle denunciare dal
procuratore generale della Cassazione, soprattuto quando, come documenta
Ennio Fortuna, si tratta di un magistrato per stile alieno dalle drammatizzazioni di
facciata. Il procuratore ha parlato di «carneficina» (1.000 morti in un anno) del
crimine organizzato; di «totale insensibilità» del potere mafioso ai colpi inferti da
magistratura e polizia; di scarso allarme per il dilagare della «corruzione politica
e amministrativa». A opporsi a questa sfida, le condizioni «letteralmente
proibitive» in cui opera il potere giudiziario, i benefici di legge di cui godono
anche i «feroci delinquenti», la «carenza abissale dei servizi sociali», il rischio
del «collasso» da cinque milioni di cause arretrate, le aberrazioni della
«presunzione di non colpevolezza».
Ma con la giustizia in queste condizioni, perché stupirci allora se l’Italia conosce
un diffuso «rancore», se per disperazione guarda alla pena di morte, se la
democrazia risulta ancora «incompiuta», se gli stessi italiani non credono
minimamente di essere quinti tra le nazioni leader del mondo industrializzato?