1990 dicembre 8 Si dovrebbe…

1990 dicembre 8 – Si dovrebbe…

Anche se il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia vengono citati quali modelli, qui si
vorrebbe parlare di Sanità. Che il ministro De Lorenzo sta tentando, per ora con
progressi molto parziali, di sottrarre alla gestione del politicume locale e alla quale
il ministro Carli imputa la massima emorragia del bilancio dello Stato, voce per
definizione senza controllo.
Si vorrebbe parlare di mafia, fuori di ogni retorica e non limitandoci alla
quotidiana conta del killeraggio, per provare a capire se alcune regioni sono ormai
«perse», come sintetizza l’ultimo titolo del settimanale Europeo, o se la ribellione
delle vittime può ancora consentire un pertugio di fiducia. Pensiamo a donne come
Pierina Loverso o Michela Buscemi che per essersi costituite parte civile contro gli
assassini del marito, del cognato, del nipote e di due fratelli, hanno subito un
secondo delitto, questa volta sociale: l’isolamento, l’emarginazione, l’aggressione
del «sentire mafioso».
Si vorrebbe parlare di metalmeccanici, due milioni di operai che un superficiale
senso della modernità e del post-industriale reputa incredibilmente sorpassati,
quasi che lo sviluppo, il terziario, i servizi e la tecnologia fossero germinati dal
nulla. Ricordare, come ha fatto benissimo lo stesso Romiti, che una busta paga da
25 milioni costa all’azienda 38 milioni e mette in tasca al dipendente 18 milioni
con il più alto differenziale tra lordo e netto che esista al mondo; aggiungere che
nell’Italia degli sprechi irpini da 30 mila miliardi al colpo, delle rendite
parassitarie, del fisco privilegiato e dei guadagni non tassati, un metalmeccanico
che a Marghera come a Napoli o Milano prende – con undici anni di anzianità
lavorativa – un netto in busta di un milione 118 mila lire rappresenta uno scandalo
per
fondato
contemporaneamente sul lavoro umiliato e sul costo del lavoro massimizzato dagli
oneri.
Di questo e altro si dovrebbe parlare, di pericoli mortali e di reali problemi. Non
ultimo il bisogno di Politica intesa quale restaurazione del valore, della
responsabilità e dell’autoregolazione come chiedono cattolici e laici, Norberto
Bobbio o Padre Sorge, pezzi di società e di partiti, la parte più avvertita di un Paese
dove l’emozione dominante, secondo il rapporto Censis sull’Italia ’90 reso noto
proprio ieri, si riassume nel «non ne possiamo più» e dove la (progressista) voglia
di «fare sviluppo» cede alla (nichilista) voglia di «fare affari».
Di questo si vorrebbe e si dovrebbe parlare se con protervia affatto costituzionale
le stesse Istituzioni non operassero soprattutto in questi giorni un parossistico
depistaggio della realtà, così sperperando nel medesimo tempo sia l’azione di
governo, sia quel grande patrimonio d’insoddisfazione popolare che sta alla base
della crescita di una democrazia e della sua superiorità rispetto a qualsiasi altro
sistema. Mentre
trasparenza, poteri delicatissimi si
espongono aumentando la confusione; organi che sono tenuti a coordinarsi
nell’interesse della collettività si divaricano o ipocritamente si allineano a colpi di
lettere, comunicati, conferenze stampa, interventi a braccio, discorsi a titolo
personale, giudizi dove il confine tra ruolo pubblico e private convinzioni alimenta
altra ambiguità.
In particolare, se nelle monarchie costituzionali il re «regna e non governa», per la
Costituzione repubblicana il potere del Presidente è neutro, riferimento dell’unità
nazionale, non parte attiva nella mischia della politica. Nella logica di un regime
parlamentare, l’essere al di sopra delle parti gli sconsiglia di prendere parte se non

la giustizia distributiva e una perversione del

invocano chiarezza e

sistema

come garante delle regole. Non a caso, appena eletto capo dello Stato, al primo
scrutinio con 752 voti su 977 e con l’appoggio ufficiale dei partiti di maggioranza,
dei comunisti e della sinistra indipendente, Francesco Cossiga – nel grande filone
liberale di De Nicola e Einaudi – disse: è «mia intenzione essere Presidente della
Repubblica in collegamento e collaborazione, ognuno nel suo ordine, tutti al
servizio del Paese, di tutte le istituzioni dello Stato, garante dei loro reciproci
rapporti e della loro conduzione conforme ai principi della Carta costituzionale».
In un momento di radicale trasformazione, dove tutto si può deteriorare ma tutto
può anche essere rifondato, l’appannamento o l’esorbitanza delle Istituzioni offre il
miglior alibi al qualunquismo e alla protesta che pur a parole si dice di voler
sanare. In un momento come questo il bene più prezioso torna ad essere il senso
del confine: non un’autocastrazione, ma la vera arte del potere.
Sul caso Gladio, Andreotti ribadisce ora che si deve fare «piena luce sui fatti»:
segno che piena luce non è ancora stata fatta. Il giudizio costituzionale è stato
affidato a insospettabili saggi, quello politico al Parlamento, quello investigativo
ai magistrati. Per quanto tardiva è l’unica strada giusta: visto poi che tutti
dichiarano di ritenerla tale, e anzi rivendicano a ciascuna la priorità e la paternità
d’essa, lasciamo lavorare saggi, Parlamento e giudici. E torniamo urgentemente

alla realtà.