2004 ottobre 3 Federalismo bipartisan

2004 ottobre 3 – Federalismo bipartisan: la fine del federalismo
Quando non si riesce a ricordare il nome di un oggetto, vengono in soccorso il coso e la roba buoni per
tutti gli usi: esattamente come si dovrebbe fare con il «federalismo» di sinistra (2001) e di destra
(2004), un coso istituzionale, una roba riformista, poco più. Capire perché tanto i contrari quanto i
favorevoli siano unanimemente affezionati alla stessa parola per ora vuota rimane un bel mistero, anche
se un polemista francese osservava già qualche decennio fa che in Italia vige «il dominio delle grandi
parole», un Paese grandiloquente che gonfia l’alfabeto trovando le frasi fatte più saporite del baccalà
alla vicentina. Anche la devolution, cioè alcuni poteri primari sul territorio, dovrebbe per realismo
aggiornare almeno il nome in evolution, chi vivrà vedrà come andrà a finire. La riforma in discussione
alle Camere meriterebbe in aggiunta l’articolo campa cavallo, vedi il federalismo fiscale che slitta
imperturbabilmente anno dopo anno in Commissione. Basti pensare poi all’ingorgo del 2006. Il voto
politico in primavera confermerà o manderà a casa Berlusconi. Il probabile referendum popolare dovrà
dire sì o no alla devolution in autunno quando Ciampi, il cui mandato scade fra venti mesi, avrà lasciato
il Quirinale. Lo scenario, come dicono i commenti forbiti, potrebbe mutare dal giorno alla notte per due
buone ragioni. Perché le maggioranze di turno hanno in comune il vizietto di archiviare le riforme
altrui. E perché ogni presidente della Repubblica interpreta la stessa carica come meglio gli pare, ad
esempio Cossiga picconando il sistema, Scalfaro tirando le sue fila politiche, Ciampi sentendosi
garante delle regole senza essere mai stato parlamentare. Dopo Ciampi, chissà. Ma la vera pecca sta
nell’assenza di spirito riformista, per non parlare del «patriottismo costituzionale» e dell’«amor di
patria che sgorga dal cuore» immaginati in un’intervista al «Corriere della Sera» dal capo dello Stato. Il
risultato è sotto gli occhi di tutti, nessuno si fida più di niente, che siano i giovani industriali o gli
amministratori locali, e sono sempre meno gli italiani che sanno rispondere alla domanda: cos’è il
federalismo? A proposito, le risposte di una quindicina di giovani e meno giovani interrogati al volo da
un telegiornale di Mediaset in piazza Bra a Verona parlano da sole. Del tipo, mai sentito dire di
federalismo, non so, non saprei, boh, mi scusi, non mi occupo di politica, preferisco non dire niente, e
via ignorando con l’eccezione di un solitario bene informato. E questa sarebbe la rivoluzione
federalista dal basso, di popolo, al cui confronto perfino il Risorgimento diventa ordinaria
amministrazione. Nel nostro Paese ultraricco di diversità manca per paradosso una solida cultura
dell’autonomia, questo il punto. È proibitivo il federalismo come è stato faticoso il decentramento e
come fu difficile il regionalismo. Cosa si crede, che la «Camera delle Regioni» sia forse una trovata di
oggi? Nel preparare la Costituzione del 1948 ci fu battaglia grossa per chiamare proprio così un Senato
più legato alle categorie produttive e al consenso locali ma i regionalisti furono battuti per un voto:
novantasei sì contro novantasette no. La politica oggi sulla scena è tutta partisan, non bipartisan; chiude
le porte in faccia, non cerca uscite comuni. Ogni schieramento fa già una fatica boia ad accordarsi al
proprio interno, figuriamoci se ha il coraggio di favorire lo spirito unitario che sarebbe indispensabile
nel rimodellare lo Stato di tutti. Il federalismo del centrodestra è un compromesso talmente curioso che
può apparire allo stesso tempo sfasciaItalia o neocentralista, avvento dello Stato leggero o
inaugurazione di doppie costose burocrazie. Quanto al centrosinistra, a suo tempo diede ampiamente
prova di quanto innocuo possa risultare alla fine un compromesso federalista da Diliberto a Mastella.
Con tali premesse, un accordo unitario darebbe in ogni caso la seguente formula: compromesso +
compromesso = supercompromesso meno federalismo. Nessuno appare bipartisan, fino in fondo
disposto a riforme condivise da maggioranza e opposizione. Non Berlusconi, leader personalizzato, per
definizione alternativo, prendere o lasciare. Né l’ultimo Prodi, il meno bipartisan di tutti, anzi
autopartisan, personalizzato quanto Berlusconi e non a caso alla ricerca del plebiscito dell’Ulivo.

Soltanto Rutelli sembra credere alla possibilità di rompere il muro preconcetto e incrociato dei no.
Umberto Bossi ha attraversato con ammirevole forza d’animo momenti fisicamente tremendi. Si può
anche capire il suo sincero sforzo per fare della devolution la terra promessa finalmente raggiunta dalla
Lega Nord e dalla sognante Padania ma, se alla lunga passasse così come sta, questa riforma avrebbe
soltanto il grande merito di aver ridotto i parlamentari da quasi mille a settecentocinquanta. Non è una
rivoluzione federale né un attentato all’unità d’Italia, è una roba, un coso chiamato federalismo. Il ceto
politico lo sa. Lo sa meglio di me.
3 ottobre 2004