2004 maggio 23 Effetto Iraq

2004 maggio 23

Effetto Iraq:l’Elogio della Ritirata, che sega in due la politica , fa per contrasto apprezzare i soldati
italiani molto più di prima. A mio parere si riscopre in loro un pezzo militare d’Italia al quale
abbiamo dedicato finora scarsissima attenzione e si scopre che, dopo le mostruose guerre del
passato prossimo, anche una moderna missione armata di “pacificazione” ( termine adottato dai
vescovi italiani) può dire moltissimo su tanti nostri giovani delle ultime generazioni. Come sempre,
presente e passato si tengono anche se non si assomigliano più in nulla.
All’adunata nazionale della scorsa domenica a Trieste era presente con i suoi 107 anni d’età il più
vecchio alpino d’Italia, piemontese, chiamato alle armi nel 1916 per combattere in Veneto e in
Friuli la prima guerra mondiale. “Della guerra non parla – ha osservato il figlio – ma so che si
andava all’assalto al grido di Trieste e Trento.” Nell’inverno di quell’anno la rivista mensile del
Touring Club Italiano usava soltanto l’espressione “la nostra guerra” mentre raccontava in pagine e
pagine che nella battaglia del Carso i soldati avevano come nemici, oltre agli austriaci, la “bora
rapace” e il “terreno primitivo”.
Se posso ricorrere all’esperienza di famiglia, mio padre andò al fronte nel 1917 con gli
automobilisti del reggimento dell’artiglieria a cavallo che rifornivano di munizioni il Grappa e
l’altopiano della Bainsizza che nelle notti di luna mostrava la distesa di scheletri bianchi dei soldati
insepolti tra i due fronti in trincea. Nei suoi ricordi scriveva:”Ma chi ha inventato la maledizione
della guerra?” E tuttavia aggiungeva, proprio come il vecchio alpino piemontese:”Il miraggio di
Trento e di Trieste infiamma i giovani.”
Viene da domandarsi senza scandalo se incredibilmente esistano anche le aggiornate “Trento e
Trieste” dei soldati italiani in Iraq. Se, al di là dei linguaggi sempre datati, qualcosa possa ancora
“infiammare” nel 2004 un carabiniere o un lagunare in quel buco d’agguati dove la guerra non é
ufficialmente guerra e la pace nemmeno tregua..
I fatti e i comportamenti dimostrano che la risposta é sì, senza esitazione sì. Le “Trento e Trieste”
dei soldati di oggi sono tutt’altro remoto mondo e il verbo “infiammare” resta soltanto sulla bocca
dei vigili del fuoco, ma il contingente italiano in Iraq – presente come in tante altre trappole dei
conflitti internazionali in corso – sta dimostrando che i tanti Istat e Censis ci possono dire ogni anno
molte cose sullo stato dell’economia e della società italiane eppure nemmeno le loro statistiche
arrivano a misurare questo poco esplorato sottosuolo umano e popolare.
In un Paese come il nostro, si rivela impressionante il carattere dei nostri soldati. Intervistati in Iraq
o in Italia, dimostrano ciò che sono, professionisti in divisa che fanno il loro duro mestiere come se
non li sfiorassero nemmeno la zizzania politica e la lontana eco parlamentare di Berlusconi e/o di
Bertinotti.
Chiamano il dovere “lavoro”; parlano asciutto, senza retorica, si spiegano e spiegano senza slogan
pre-confezionati dai comandi. Se si trovano in Iraq confessano di volerci restare per concludere il
“lavoro” o per spirito di gruppo o per onorare chi ci ha rimesso la pelle. Se sono rientrati in Italia,
aspettano tutti di ripartire. Se sono feriti, attendono soltanto di guarire.
Hanno tutti un progetto anche personale, chi farsi la casa, chi metter su famiglia, chi disporre di
qualche soldo in più, chi irrobustire la carriera, chi continuare una tradizione familiare, chi sentirsi
parte di una addestrata élite, chi dare una mano cristiana al mondo, chi dare senso a se stesso. La
loro missione dovrebbe valere anche più dei dieci milioni di vecchie lire al mese di paga, ma si
dichiarano soddisfatti dell’opportunità come consapevoli dei rischi, padroni di una scelta mai
enfatica che mette insieme tante motivazioni, una passione, una vocazione, una professione, l’onore
militare, la dignità di un compito molto speciale. Una specie di laurea sul campo, che non esclude il
peggio, faccia a faccia con un terrorismo islamico che restituisce a fatica corpi irriconoscibili di
ostaggi ammazzati con il colpo alla nuca caro a Hitler e Stalin.
Basta ascoltare le ragioni che i nostri soldati spiegano normalmente alle loro famiglie nel dare
risposta ai preoccupati “chi te fa lo fare” di andare volontario in questo Iraq. Ne esce

clamorosamente smentito il luogo comune sul mammismo nostrano: le mamme prima provano a
dissuadere poi – come testimoniano le cronache – si arrendono. “Abbiamo capito”, si legge nei
racconti di chi aspetta a casa una telefonata e perfino di chi non può più aspettare il suo “ragazzo”.
Questi soldati italiani si dimostrano gente seria, all’altezza, né fanatici del ruolo né tentati dal “tutti
a casa” di Alberto Sordi. Rifiutano di dichiararsi eroi e tentano, con il mitra imbracciato, di
esportare a caro prezzo l’obbiettivo più complicato: far così bene il lavoro militare da sembrare
quasi in servizio civile.
Mentre gli americani processano i loro torturatori e disertori, a me sembra che questi nostri soldati
abbiano finora eseguito un servizio importante alla non scontata reputazione degli italiani. Tra le
regole d’ingaggio ignorano l’Elogio della Ritirata. Hanno altro da fare.