2004 luglio 20 Bossi

2004 luglio 20

Umberto Bossi non si é mai trovato in un pasticcio come questo. Non ha la salute per presidiare il
ministero delle Riforme né tanto meno per rimpatriare la Lega Nord a Pontida: nel suo caso stare
nella maggioranza o uscirne fuori sa poco di tattica e molto di svolta. Preferire il seggio europeo a
quello della Camera sarebbe già un simbolico Aventino.
Dopo la sfiancante verifica del secondo governo Berlusconi, sbiadisce perfino il ricordo del
“ribaltone” del primo. Quasi una romanticheria d’altri tempi, da relegare tra i primi passi del
bipolarismo all’italiana fin da allora ridotto all’osso di un sì o di un no a Berlusconi.
Oggi il centrodestra chiede a Bossi l’impossibile, cioè di non disturbare troppo la coalizione pur
sapendo tutti benissimo che la Lega non può essere normalizzata come un qualsiasi altro partito.
All’atto di nascita si definì forza “anti- sistema”, mai rinunciando alla invettiva di “Roma ladrona”
pur di perpetuare la sua distanza dal centro dei poteri, dallo statalismo della politica, dai partiti
come media ponderata del nord e del sud.
Per un movimento che nel sincero gergo di Giampaolo Pansa era cresciuto “barbaro”, la situazione
più scomoda sarà sempre quella di andare al governo. Ma se ci va e se ci sta, come in questo
crepuscolare Berlusconi II, é chiaro che deve ottenere qualcosa di speciale. Non certo la mediazione
tra le rispettive furbizie, non la paludosa nicchia del sottogoverno e nemmeno la grigia propaganda
dei programmi di fine legislatura. Tutta questa “roba”no, é solito avvertire Bossi.
Per non tradire la ragione sociale, la Lega deve conservare almeno il suo marchio, il suo segno
distintivo. In altre parole, il Bossi popolano può giurare come ministro al Quirinale e la sua Lega di
lotta può prendersi il rischio di governare fino al 2006 soltanto a patto che venga loro riconosciuto
l’atto originario.
Il “federalismo” di Bossi questo significa, e nient’altro. Tenere duro sul solo punto che la base
leghista sente come propria carta d’identità politica, da mettere per iscritto. Se un giorno Bossi
lanciò come sinonimo di identità la “polenta” contadina, il federalismo gli serve politicamente
come il pane.
Il federalismo come grande, condivisa riforma dello Stato é oramai un’occasione ampiamente
perduta anche nell’immaginario collettivo. Lo è stata, come sostiene da tempo il prof. Massimo
Cacciari, per la stessa pavida sinistra. Se via via passerà in Parlamento, la cosiddetta “devolution”
non realizzerà il federalismo ma infilerà nella Costituzione elementi sparsi di federalismo accanto a
quelli introdotti dal centrosinistra nelle ultimissime ore della passata legislatura.
E’ un federalismo furtivo, a luci spente, forse addirittura “un contentino verbale alla Lega” come
sostiene l’ex capo dello Stato Cossiga. E’ il federalismo di parte, che richiederà anni e anni solo per
coordinare norme scoordinate nella lettera e, soprattutto, nello spirito. Ma resta in ogni caso e a tutti
i costi la sola vera bandiera della Lega, e Bossi sospetta fortemente che la maggioranza la stia
ammainando. Non platealmente, non a muso duro, non con uno scontro politico frontale ma con
l’arma tagliente degli emendamenti parlamentari e dei tempi tanto lunghi da cancellare anche le
impronte del suo federalismo.
Finché ha potuto il prof. Gianfranco Miglio ha continuato a raccomandare a Bossi di
“differenziarsi” a qualsiasi costo, devoluzione compresa. Il leader della Lega ricorda bene la
lezione; solo che la durissima convalescenza gli nega ciò che aveva in esubero, il protagonismo, il
corpo a corpo politico, le parole d’ordine, la minaccia istituzionale della crisi di governo usata dalla
Lega per governare senza mai deporre definitivamente l’ascia della “lotta”.
Con il 5% del voto del Nord, essenzialmente nel Lombardo-Veneto, adesso la Lega si sente
accerchiata. Dal follinismo che Edmondo Berselli ha classificato su questo giornale come
“variante ultima dell’evoluzione democristiana”. Dalla permanente verifica da prima repubblica.
Dallo stesso Berlusconi quando confessa di aver dovuto “fare il democristiano” nel subire l’aut aut
di Fini e Follini a spese del super ministro dell’economia Tremonti, garante della Lega, forse il
solo esponente di Forza Italia che il popolo leghista sente anche come suo.

Dal suo letto di cura, é temerario immaginare che Bossi possa decidere se restare o uscire oggi dal
governo per un paio di emendamenti sulla devolution in cantiere. Il fatto é che nel centrodestra tira
aria di precarietà e in Berlusconi un malcelato rancore verso alleati non più devoti. E più si parla di
elezioni nel 2006 più si pensa al 2005.
La Lega non può stare a guardare, questo il punto. Non ci sta nemmeno a fiancheggiare senza
contropartita il logoramento di Berlusconi. Né a subire l’iniziativa di AN e Udc che Bossi considera
pur sempre partiti assistenzialisti, colpevoli del vecchio “male del nord” censito a suo tempo dal
prof. Diamanti.
La Lega ha bisogno del federalismo anche per non sentirsi prigioniera del follinismo. Umberto
Bossi sopporta bene la clinica, non sopporta affatto la prigione politica.