2004 febbraio 19 Nereo Rocco

2004 febbraio 19 – Nereo Rocco

Dopo che il suo Torino aveva subito a Venezia il gol del pareggio a un secondo dalla fine, chiese ai
giornalisti:” Sémo mone o sfortunadi?” Il dilemma di Nereo Rocco era la versione plebea di
Amleto.
Nell’attimo fuggente del calcio, dovevano contare gli uomini o il Fato. Non soltanto la tecnica, la
tattica, la geometria, il WM in campo o il catenaccio in difesa, ma soprattutto il nerbo, l’astuzia, il
mestiere, l’istinto di sopravvivenza, il carattere. “Muoviti, cazzo!” sembrava brontolare a turno
dalla panchina, ma lui non diceva mai le parolacce come il personaggio di Garcia Màrquez: al
massimo un collettivo “mone” alla veneta, più disperato che denigratorio.
Rocco sapeva tutto del calcio; sotto la scorza bonaria lavorava una miniera di competenza. Per chi
se ne fosse scordato, ha vinto tutto, scudetti, coppe dei campioni, coppa intercontinentale.
Il suo ideale era una sintesi fra il tocco in più, quasi danubiano, alla Gianni Rivera, il vigore
anglosassone e gli schemi volpini all’italiana. Una volta mi disse di Rivera che era l’”uomo” che gli
inquadrava i “superficiali”. Aveva detto apposta uomo, non giocatore. Un leader, intendeva.
Non circolano altri Rocco oggi, anche perché a 25 anni di distanza il calcio attuale non é più
nemmeno parente di quello del paròn. Soltanto l’ironia romanesca di Carlo Mazzone, classe 1937,
ne rinnova forse, anche se a modo suo, il gusto triestino della battuta. Come una bora che soffia
senza farti sbandare.
A Padova gli Scagnellato, Zanon o Humberto Rosa mandano ancora a memoria certe disposizioni
difensive da enciclopedia britannica del football:” Abbattere tutto quello che si muove ai diciassette
metri. Se poi é il pallone, tanto meglio.”
Per questo, a dispetto dell’anniversario oramai distante un quarto di secolo, la popolarità di Rocco
sopravvive a tempo indeterminato. Come il ricordo di Gianni Brera, che di Nereo fu il cantore per
affinità elettive, dense di schemi e di bulloni, di étnos e di barbaresco, di gusto rotondo del vivere e
di struggimento da sconfitta.
Era benvoluto Rocco perché si faceva benvolere. Nonostante le opposte barricate del tifo tra Milan
e Inter, chiamava Helenio Herrera affettuosamente “sto mato de mago” oppure “il mio fratello
spagnolo”. Non c’era violenza nell’aria ma un mare di resistente umanità che già vedeva spuntare
all’orizzonte troppo denaro, troppo fanatismo, troppi nani e ballerini nel circo delle Spa del pallone.
L’ultimo esemplare di quel mondo perduto é stato Enzo Bearzot, che ha vinto il Mundial con
l’accento del Friuli sulle labbra.
Non voglio ricordare Nereo Rocco con la tristezza della lontana, ultima telefonata alla clinica di
Trieste. Lo ricordo allegro come può esserlo una persona che sa sorridere della vita e perfino del
calcio. Lo ricordo come il solo allenatore che poteva trovare “cocolo” anche uno stopper di ferro o
un generoso mediano.
Lo ricordo così, alla buona, con la felicità di averlo stimato.