2003 novembre 9 Le riforme della Lega in ostaggio dell ex DC

2003 novembre 9 – Le riforme della Lega in ostaggio dell’ex DC
Qualche anno fa il sindaco leghista di Montegrotto, Giuseppe Gallo, scrisse un simpatico libro (Un
sindaco del pollaio di Bossi) sulla sua esperienza di amministratore del Comune euganeo, ma senza
rinunciare a dire la sua sulla politica della Lega Nord. E secondo lui Umberto Bossi avrebbe dovuto
imitare unicamente Fausto Coppi, l’asso del ciclismo che vinceva correndo da solo, curandosi poco
degli alleati e ancora meno degli avversari. Quel sindaco, come tanti leghisti e tanti sindaci, sognava la
solitudine della Lega come arma letale per sdoganare il federalismo, padre di ogni possibile riforma.
Anche oggi, all’assemblea federale in un hotel di Milano, Bossi se la vedrà con le sue due anime
alternative: la solitaria e la politica. Se non che le cose si sono parecchio complicate in questi ultimi
anni. La Lega è troppo debole elettoralmente per sfruttare la solitudine; la Lega è geneticamente troppo
movimentista per lasciarsi placare dalla politica senza colpo ferire. Da sola non ce la fa; in coalizione
sta contro natura o quasi. I simboli di Bossi sono verdi. In realtà, il leader verde ha la cronica
ossessione del grigio e teme che la Lega – né solitaria né politica – sbiadisca alla fine in un limbo
marginale, confinata in un’area del Nord sempre più delimitata e scettica. Non per nulla il suo ultimo
slogan d’urto è: «O riforme o tutti a casa» ma rivolto, questo il punto, al centrodestra di cui fa parte non
all’opposizione di centrosinistra. L’avversario sta dentro, non fuori. Il guaio non sono gli eterni
«comunisti» bensì i «neodemocristiani». Lo si sente dal linguaggio che Bossi soffre, adesso quanto ieri,
della cronica allergia verso i «democristianoni» presi a modo suo a incarnazione della politica
politicante, delle segrete manovre, dei trucchi parlamentari, dei franchi tiratori e di un moderatismo
appiccicoso più del vischio. Per non lasciare adito a interpretazioni, in queste ultime ore li ha insultati
ora come «parrucconi» ora come «banditi della prima Repubblica», insomma la stessa specie politica
vecchia e callida che nel 1994 avrebbe spinto la Lega a buttar giù il primo governo Berlusconi in
quattro e quattr’otto. Incredibile ma vero, quasi nel decennale del suo ribaltone Bossi scopre
clamorosamente l’acqua calda, e cioè si dichiara circondato dai democristiani del centrodestra. Come
se niente fosse, finge di trascurare alcuni dati di fatto da tempo sotto gli occhi. Che, tanto per
cominciare, Berlusconi si crede senza batter ciglio la storica controfigura di Alcide De Gasperi e ritiene
Forza Italia l’erede più naturale della Democrazia cristiana. Che l’udc di Casini-Follini è democristiana
e legittimamente orgogliosa di esserlo. Che lo stesso Fini continua con decisione a spostarsi da destra
verso il centro postdemocristiano, mai più al contrario: ha qualcosa di Mario Segni questo inedito Fini
e, per le sue posizioni europeiste, piace un sacco anche al socialista Giuliano Amato. Eppure Bossi
dovrebbe sapere meglio di chiunque che qui si tratta anche di ceto politico, nel senso che la cosiddetta
seconda Repubblica ha fatto molto meno scuola della prima sia a livello nazionale che locale. Meno
innovazione, più continuità. Un solo recentissimo esempio: alle elezioni amministrative per la
Provincia di Trento ben diciotto consiglieri su trentacinque eletti provengono dalla vecchia Democrazia
cristiana. Tutti figli dello stesso ceppo d’origine anche se distribuiti tra centrodestra e centrosinistra,
dodici con la Margherita, quattro con Forza Italia e due con l’udc. Segno che la dc aveva sul territorio
una solida scuola di quadri.
La questione è fin troppo chiara, con alle porte le elezioni europee del 2004 e, chissà, con le elezioni
politiche del 2006 anticipate di uno o due anni. Il centrodestra sta accelerando la propria trasformazione
in grande centro, al cuore del quale sta il voto moderato. Non si tratta più di «litigiosità» a buon
mercato, ma di una competizione interna senza esclusione di colpi alla quale Bossi rischia di fare da
spettatore: il sogno di tanta parte del centrodestra è in fondo di fare a meno proprio di lui. Non sono
grandiose riforme quelle pretese da Bossi, ma fanno fatica a passare tra i suoi alleati anche le modeste.

Il mostro della burocrazia che strangola l’Italia può campare tranquillo; nessuna riforma è alle viste. È
anche beffardo il momento della Lega, che spara dalla mattina alla sera nel mucchio dei
«democristianoni» mentre l’anno nuovo si annuncia con i più classici dosaggi della prima Repubblica:
il rimpasto e/o la verifica di governo. In altre parole, minuscoli ritocchi chirurgici a base di qualche
ministero e di qualche sottosegretario. Il quotidiano della Lega Nord, «La Padania», titolava ieri: «Certi
alleati abbiano il coraggio di dire agli elettori che sulle riforme hanno scherzato». Oggi all’assemblea di
Milano si vedrà se ha scherzato Umberto Bossi.
9 novembre 2003