2003 novembre 16 Poker di consultazioni

2003 novembre 16 – Poker di consultazioni

Al Casinò direbbero poker. 1979, 1989, 1994, 2003, quattro referendum popolari sullo stesso
quesito.Oltre ai problemi amministrativi di ogni comune, da un quarto di secolo Venezia ne ha uno
di strutturale, tutto suo, unico, speciale e ripetitivo: é addirittura incerta se restare città una o se
separarsi in due municipi, da una parte Mestre dall’altra Venezia.
Finora ha sempre vinto il “No” alla separazione ma il “Sì” é sempre aumentato, dal 27 per cento
della prima volta al 42 della seconda fino al 44 della terza. Oggi si vedrà, sotto gli occhi curiosi e
interessati della Regione Veneto.
Da decenni Venezia patisce lo strano rapporto con il Veneto, di cui é allo stesso tempo capitale
spirituale, capoluogo regionale e distante “città del mondo”. I suoi 4 referendum segnalano un
disagio ulteriore, di entità urbana precaria dentro, alla radice. Non ci si consulta per 24 anni sul
nulla né su un pretesto, questo é matematico.
Siccome l’ultima parola spetterebbe semmai alla Regione, tali referendum sono ovviamente
consultivi. Non sono però sondaggi d’opinione buoni per Porta a Porta; queste consultazioni hanno
il sigillo istituzionale in piena regola.
Nessun’altra città ha mai discusso così a fondo se stessa. Nessuna riesce giorno per giorno a trattare
la cronaca come un’appendice della storia e, viceversa, la storia come la prefazione dell’attualità.
Qui anche i due quotidiani locali in edicola debbono lavorare di archivio più che altrove.
Forse in ciò consiste la grandezza di Venezia ma anche la sua infelicità, perché ha la memoria di un
elefante, riesce sempre a ricordarsi tutto. Naviga negli anniversari come nei rii; conserva
miracolosamente la Serenissima dietro l’angolo della modernità.
Il Novecento ristrutturò il territorio di Venezia. Fino agli anni Venti, la città era più sola, più a sé,
più separata, era Venezia e basta, molto popolosa e badante a se stessa. Sarebbe potuta restare così
com’era, città storica, città d’acqua, città della laguna, un’idea insulare, il luogo dell’”essere
Venezia”alla Fulvio Roiter. Il resto era “campagna”.
Non c’era niente da separare allora e, al contrario, Venezia finì per esercitare l’effetto calamita. Il
suo capitalismo, che la voleva produttiva ed espansiva, si inventò di sana pianta Marghera a due
passi dal Canal Grande e con decreto governativo rimpolpò Venezia di alcuni piccoli comuni come
Mestre ( 20 mila abitanti ) o Murano.
Senza saperlo, nasceva in quel periodo storico la Venezia unionista, che teneva assieme tante cose
diversissime, proprio come adesso. “Grande città diffusa e dispersa” l’ha di recente configurata
l’architetto Vittorio Gregotti oppure “ città linearmente bipolare” l’ha definita l’urbanista Leonardo
Benevolo.
Solo che ora non esiste più nulla di simile a quei tempi.
Con Marghera si sarebbe sviluppata una città del lavoro da 40 mila addetti, oggi ridotti a un
quarto. Mestre diventava clamorosamente città-città, figlia un po’ del boom industriale di Marghera
un po’ dell’esodo da Venezia, infine rovesciando del tutto i rapporti demografici.
Mestre si ingrandiva fino a simulare Padova mentre Venezia si ritrova via via più piccola di
Treviso. E saliva all’onore delle statistiche un quarto popolo, quello dei 50 mila pendolari tra la
terraferma e il cosiddetto centro storico, testimoni invisibili della innata discontinuità del territorio.
Soltanto una città molto flessibile poteva resistere in qualche modo a una rivoluzione urbana di
questa portata, ma proprio i quattro referendum ne riportano ciclicamente a galla il malessere di
fondo. Segno che, per quanta flessibilità territoriale si metta in campo, questa é una città che vive
una relazione malata con la propria identità.
Non per carenza , ma per eccesso di identità. Ne ha troppe e disparate per sintetizzarne una di
ampiamente condivisa.
Considero romantico il primo referendum del 1979. Non per nulla nasceva alla lunga dal Centro
studi storici di Mestre, la cui anima era l’avvocato Piero Bergamo, primula rossa del separatismo,

la

la

loro convivenza

in un solo Comune e una balla

animatore di liste civiche ben radicate.”Il suo era l’autonomismo del cuore”, mi ricordava un giorno
Pierluigi Cadel.
Quel mondo in fermento cercava di parlare ai “mestrini”pronti a dichiararsi finalmente tali,
nell’intento di illanguidire una matrice ex-veneziana prima sentita con orgoglio poi avvertita come
subalternità. La città-dormitorio si era svegliata. Qualcuno cominciava a perderci anche il sonno
Il 1926, inteso come fine sciagurata del Comune di terraferma, diventava così il riferimento
retrospettivo di un grande comizio sul futuro di Mestre. La città emergente tentava di farsi Nuova
assai prima della “Venezia Novissima” e tecnologica del parco Vega.
Se ne discuteva al Rotary o al Lions come all’”Amelia”. La prima cultura separatista nasceva a
Mestre all’insegna del fai da te di pochi pionieri.
Anche il prestigio e le vittorie olimpiche della scuola di fioretto di Mestre, guidata da Nonino e
istruita da Di Rosa, diventavano segno di identità locale. Come la Mestrina nel calcio. Come un
giorno, per paradosso, l’epico “Passante di Mestre”, infrastruttura europea con epicentro mestrino.
Ma ideologo delle due città separate fu e sarà sempre Bruno Visentini, scomparso otto anni fa.
Aveva contro tutti i partiti, compreso il suo! Il vecchio Pri , separatista a Venezia, era anti-
separatista a Mestre con il suo miglior esponente, Gaetano Zorzetto.
Laico fino al midollo, “gran borghese”, amante di Wagner e fautore in politica del “governo dei
tecnici”, Visentini trovava così diverse le funzioni di Venezia e di Mestre da considerare una
“mostruosità”
loro presunta
“complementarità”. Sosteneva che era tempo perso andare avanti così, con “Mestre considerata dai
veneziani la zona industriale di una città storica e Venezia dai mestrini la zona monumentale di una
moderna città industriale.” Ieri come oggi.
Si rendeva dunque necessario specializzare le due città per mezzo di due comuni ad hoc, fatti su
misura, attraverso un ceto amministrativo fortemente radicato.Dal 1979 al 1994 il professore non
cambiò mai opinione anche perché non doveva renderne conto a nessuno. Nemmeno la nascente
autonomia di Cavallino – Treporti lo sorprendeva.
Lui era un elitario, incapace di lisciare il pelo all’elettorato, e non a caso le sue posizioni su Venezia
erano le stesse di Indro Montanelli . Visentini continuò a scaldare di suo pugno il tema separatista
prima sul “Corriere” poi su “Repubblica” senza riuscire però a convincere l’”amico” Gianni
Pellicani, l’”avversario intelligente” Gianni De Michelis e , alla fine, il neo-sindaco Massimo
Cacciari.
Oltre che di idee e di interessi, il caso Venezia e/o Mestre é stato a lungo anche un notevole scontro
di personaggi, che soprattutto il giornalista veneziano Sandro Meccoli ha fissato nei suoi articoli e
nei suoi libri. Per dare una decente veste giuridica a una Venezia plurale e indivisa, Feliciano
Benvenuti aveva ad esempio immaginato il modello metropolitano della “grande Londra”: se
Venezia e Mestre dovevano proprio restare unite, che almeno imparassero a pensarsi in grande.
Da anni e anni chi organizza e raccoglie firme referendarie é l’avvocato Mario D’Elia, che da tempo
considera la separazione una realtà alla quale mancano soltanto due timbri: il popolare e il
regionale. Sulla scena manca Mario Rigo, ieri separatista quanto Visentini oggi più attendista.
74 anni appena compiuti, Rigo é dal 2001 capo gabinetto del presidente del Senato, Marcello Pera.
Da sempre frequenta la politica come casa sua, fiuto quest’ultimo riconosciutogli anche dai più
velenosi avversari d’un tempo.
Socialista anomalo, é stato tra i primi a capire che il sistema dei partiti tradizionali stava già
crollando a metà degli anni Ottanta. Anche per questo fu il vero protagonista del referendum del
1994.
Convertitosi al venetismo e all’autonomismo, Rigo considerava la separazione di Venezia e Mestre
come l’affare del secolo per entrambe. La prima nel dedicarsi a se stessa; la seconda nel legarsi al
Veneto, come gli suggeriva dietro le quinte lo studioso Domenico Luciani.
Oggi Rigo non ha cambiato idea, ma nel frattempo ha fatto in materia il pieno di scetticismo. Teme
la lentezza del sistema Italia, teme la fatica delle riforme, teme l’onnipotenza della burocrazia, teme
la ventennale truffa della misteriosissima città/area metropolitana.

Teme soprattutto che la poca chiarezza sulle competenze separate fabbrichi contenzioso da qui
all’eternità come gli ha suggerito con una battuta Alfredo Bianchini, l’avvocato che dà del tu al
diritto amministrativo. Resta separatista Mario Rigo, sia pure con qualche anno di delusioni
referendarie alle spalle.
Sembra così diverso il referendum 2003 di oggi. Pone la stessa questione del 1979, del 1989 e del
1994 su uno scenario veneziano del tutto mutato, orfano di più di un riferimento ma tutt’altro che
agnostico. Dopo tre referendum di riservatezza della Chiesa, sul tema é intervenuto perfino il
Patriarcato.
Secondo me, oggi si scontrano la paura e la scommessa.
A Venezia, il No referendario riflette la paura di solitudine di una città sotto i 70 mila abitanti alle
prese con 12 milioni di turisti all’anno. A Mestre, il No nasconde il timore di perdere gli speciali
vantaggi di una Venezia speciale anche per legge dello Stato. Il tradizionale No di Marghera
manifesta anche lo stato d’animo di chi, nel bene e nel male, si sente in fondo sempre parte di
Venezia.
A Mestre, il Sì separatista scommette sull’autogoverno e sulla fine del complesso di inferiorità
territoriale della terraferma rispetto sia a Venezia che al Veneto. A Venezia, il Sì investe tutto sul
destino della città d’acqua considerando la solitudine amministrativa non un costo ma un grande
investimento.
Per la quarta volta Venezia e Mestre votano se stesse. Nonostante tutto, hanno dato anche in questi
mesi uno spettacolo di democrazia e di conoscenza.
Non c’è niente di cui pentirsi.