2003 maggio 15 Imprese e indotto. La svolta dei Benetton

2003 maggio 15 – Imprese e indotto. La svolta dei Benetton che cambia il Nordest
Al termine di un’intervista per «la Repubblica», Luciano Benetton mi accompagna lungo il porticato
della villa di Ponzano Veneto, cuore del gruppo, la casa bianca del maglione. Con il sole basso, quasi al
tramonto, e con il mio registratore spento, le battute di congedo si fanno più confidenziali. «Sa quale è
la verità? – si domanda Benetton salutandomi – Che, per quanto innovativa come la nostra, l’industria
manifatturiera è sempre vecchia per un Paese avanzato. Oggi, andrebbe bene per il terzo mondo o per
le economie in via di sviluppo come l’Est europeo, non per noi. Noi siamo il solo gruppo a tenere
ancora duro sul proprio territorio». Era il 1999 e, nel risalire in macchina, pensai molto alla buona che
la multinazionale trevigiana stava attraversando il suo mar Rosso imprenditoriale, anche umano. Il
marchio più giovane dell’immaginario globale rappresentava per contrasto produzioni così mature da
non poter resistere impavide alla delocalizzazione dei costi. Lunedì scorso, a quattro anni di distanza,
Luciano Benetton non era più in vena di confidenze. Con l’ufficialità di un’assemblea degli azionisti,
ha dichiarato alla stampa: «Nel Nordest è impossibile conservare attività tradizionali». Non una colpa
di famiglia; soltanto un fatto competitivo internazionale. Scorbutico da gestire ma un fatto, a carico di
una tradizione infinitamente più veneta. Già l’anno scorso la Fondazione Nordest segnalava non a caso
che, nel quadriennio 1997-2001, erano sparite millesettecento imprese nette del sistema moda
nordestino, vedi tessile, abbigliamento, calzature, concia e pelli, con tendenza a un’ulteriore
contrazione. Cambia radicalmente tutto, non solo a Nordest beninteso. Il lavoro cambia alla velocità del
suono. L’impresa cambia alla velocità della luce. È più impegnativo fare impresa. È più faticoso
perfino definire il lavoro. E in parecchi casi sta saltando il rapporto fra produzione e territorio. Poco
tempo fa a Valdagno il professor Innocenzo Cipolletta, riferendosi alla Marzotto, mi faceva osservare
che oggi è difficile perfino precisare quanto un gruppo produca in casa e quanto fuori visto che,
soprattutto nell’abbigliamento, trionfa l’assemblaggio. Citava fra i tantissimi il curioso esempio di un
marchio tedesco che va a produrre le giacche a vento in Turchia ma che si fornisce a Padova dei
nastrini per i loro cappucci. È tutto così. Davvero un altro mondo, nemmeno paragonabile all’atto di
nascita della Benetton così come la immaginano forse i nostri ragazzi di oggi. Quanti tra loro
potrebbero rendersi conto che nel 1960 Ponzano Veneto era uno dei quarantadue Comuni della
provincia di Treviso riconosciuti dallo Stato come area depressa, cioè peggio che povera? Credo
nessuno. I Benetton vivono oltretutto tre rivoluzioni in rapida successione, l’una infilata nell’altra come
le celebri bamboline russe. La prima: oltre al simbolico maglione di massa, si sono inventati di sana
pianta un nuovo cuore degli affari, dai servizi alle banche, dai telefonini alle autostrade, dagli aeroporti
agli autogrill. La seconda: l’inerziale spostamento di produzioni in Europa. La terza: il cambio
generazionale dalla gestione di famiglia a quella dei manager. Quest’ultima consiste in un vero e
proprio cambio culturale, perché i quattro fratelli dovranno insegnare ai quattordici figli a fare gli
azionisti, il che è tutt’altro mestiere rispetto a quello di padroni. «La svolta dei Benetton fa storia per il
capitalismo familiare del Nordest» è stata la riflessione di Maurizio Castro, che guida la multinazionale
friulo-svedese nata Zanussi e cresciuta Electrolux. Da qualunque angolazione si guardi ai Benetton,
tutto sta a indicare il mutamento di una grande azienda che ha camminato anche grazie alla
socializzazione diffusa del lavoro. Il popolo dei suoi contoterzisti, l’indotto dei laboratori policentrici,
la Benetton invisibile, se così posso chiamare questo serbatoio di intraprendenza, di professionalità e di
qualità messo in moto dall’impresa-madre. La delocalizzazione pu essere un’arma a doppio taglio. Da
un lato tende a tenere salda l’azienda rispetto alla concorrenza mondiale. Dall’altro fa pagare la
concorrenza del costo del lavoro mondiale proprio al lavoro qui meno garantito: a cominciare da quello
dei contoterzisti. Se il Nordest gode di un pil pro capite del venti per cento superiore alla media

italiana, lo deve anche a questo indotto di massa oggi sotto pressione globale ma non disarmato. Con la
qualità del lavoro, il Veneto ha più volte dimostrato di saper superare gli strappi dell’economia.
Rispetto alla delocalizzazione, che tutti gli esperti di destra e di sinistra definiscono fenomeno
«complesso», un dato a me sembra oggettivo. La Benetton arriva semmai per ultima. Per ultima ha
messo in discussione la tradizione. Forse, per la prima volta, United Colors non aveva alternative.
15 maggio 2003