2003 dicembre 12 La Fenice

Bruciata nel 1837, la Fenice fu rifatta in un anno. Il fuoco del 29 gennaio 1996 viene spento del
tutto il 14 dicembre 2003, a quasi otto anni distanza, con la ricostruzione del teatro e con la musica
che rientra a casa. Così Venezia può tornare a cantare, come piaceva a Goethe e a Wagner.
Il confronto sui tempi di esecuzione sembra impietoso, quasi un crudo termometro del disamore, ma
non é così. Visto almeno da Nordest, cantiere di trentennali ritardi, di grandi incompiute e di
concitati progetti tuttora sul tappeto, questa inaugurazione appare un mezzo portento.
L’Infrastruttura del Bello si realizza in tempo ragionevole perché ha dovuto remare contro.
Contro la burocrazia. Contro il contenzioso. Contro i conflitti d’impresa. Contro gli incagli
esecutivi. Contro la cultura del rinvio. Contro le visioni del mondo, dato che anche la Venezia più
intimidita saprebbe sempre portare a galla casi di coscienza urbana. La sua architettura sconfina per
destino nella pedagogia del vivere e opera su un presente intagliato a mano nel passato.
Il rogo e la risurrezione della Fenice hanno segnato l’amministrazione di due sindaci veneziani di
estrazione universitaria, Massimo Cacciari e Paolo Costa. Il primo, docente in Estetica, fece suo dal
primo momento il motto popolare “dov’era com’era”; il successore, specialista in territorio ed ex
ministro dei Lavori Pubblici, si é scelto il ruolo di bulldozer amministrativo. A costo di sbaraccare
un cantiere dopo l’altro, bisognava liberare la città dal sentimento di maceria che il mozzicone della
Fenice esibiva nel cuore del centro storico.
Coetanei, entrambi del 1944, ma personaggi diversissimi per tutto il resto, Cacciari e Costa hanno in
comune la stessa nausea per la litania letteraria della “morte a Venezia”, che confonde tante irreali
suggestioni con sfide reali. In particolare, quel senso diffuso di lutto da futuro, di risacca nella
storia, di scoria della modernità, di incerta identità, di decadenza demografica, di apprensione
chimica, di handicap imprenditoriale, di turismo invasivo quanto la mucillagine delle alghe marine.
Qui la Fenice di nuovo in vita reagisce anche alla Venezia eternamente tentata dalla contemplazione
del proprio mito.
Sette anni fa un settimanale ipotizzò la “scomparsa” definitiva del teatro. Oggi, esattamente dov’era
e quasi com’era, la Fenice ottempera a un puntiglio civile, veneziano e nazionale, il meno retorico
che si possa immaginare. E’ qualcosa di molto di più di un teatro costato 89 milioni di euro.
Anzi, andrebbe abrogata una volta per tutte la sua contabilità considerando la ricostruzione un puro
e semplice investimento. Diceva uno scrittore che non c’é più niente da dire su Venezia. No, no,
resta ancora moltissimo da dire, a cominciare da una precauzione collettiva: se l’Italia sospettasse
che salvare fisicamente Venezia é un “costo” eccessivo, se la Fenice passasse per un “costo” a
fondo perduto, se ogni bellezza del nostro paese fosse rivissuta come un bene facoltativo,
dovremmo andare tutti a nasconderci. Per indegnità urbi et orbi.
Un fatto é stato lasciato stranamente in penombra in questi anni. La Fenice non bruciò da sola, per
autocombustione, né per accidente come tanti o per “fataità”, la fatalità del saggio intercalare
veneziano. Non é nemmeno vittima dell’ossessione del fuoco che accompagnava la vita di Tiziano,
raccontata nell’ultimo libro di Alvise Zorzi.
No, fu data a fuoco per dolo, volutamente, per un pugno di schèi da due elettricisti locali che
volevano evitare una penale sul ritardo del loro lavoro. Le sentenze hanno convalidato fino in fondo
la scomoda verità del magistrato Felice Casson.
Non é la prima volta, beninteso. La Scala di Milano nacque sulla ceneri di un teatro incendiato nel
1776 da un prete per vendicarsi di uno sfratto.
Solo che il dolo di due scellerati da fatturato non ha più lasciato in pace Venezia. Semmai l’ha
sovraccaricata da allora di un generalizzato e malinconico sentimento di appartenenza; gli “Amici
della Fenice” erano diventati popolo. Se il fuoco della Fenice era di tutti, anche ricostruirla
diventava un’impresa di tutti.
Si spiega soltanto così, con il forte surplus di simbolo, la febbre creativa che ha rimesso in piedi il
teatro. Accanto alla tecnologia delle macchine, é stato il trionfo della bottega artigiana, della
sapienza tramandata, della persistenza familiare, del lavoro manuale, del ricupero di mestieri a volte
sull’orlo dell’estinzione. Si é lavorato nel terzo millennio con le mani antiche di doratori,

decoratori, intagliatori, vetrai, restauratori, laccatori, tappezzieri, imbottitori, terrazzieri, stuccatori,
maestri del legno, della cartapesta, della pietra, della ceramica, del disegno, del fregio d’oro, delle
sete, dei tessuti, dei drappeggi, della scenografia, dell’acustica, del suono e delle sonorità. Maestri
artigiani e operai di un lavoro senza data, che hanno costruito non un falso ma fatto rivivere dal
vero frammento su frammento.
Soltanto un elemento era impossibile da riprodurre. Quello che il progettista Aldo Rossi chiamava
l’”antica aura” o “l’architettura del tempo”, per dire che soltanto il tempo é artigiano di sé ,
depositandosi sulle cose come gli applausi del loggione.
Ho sentito Moni Ovadia dire in televisione che la Fenice non deve essere vetrina, cartolina,
première, ma della gente, e che vale per ciò che si fa in teatro non per i lampadari. Credo piuttosto
che mai come questa volta la Fenice abbia il diritto di farsi vetrina di Venezia e Venezia di sentirsi
anche vetrina senza alcun senso di colpa.
Venezia é stata vetrina dell’alluvione. Del degrado delle pietre. Del dissesto idrogeologico. Delle
sue fragili lagune. Dei suoi potenti inquinanti. Vetrina dell’esodo, della cieca rendita, del
mercantilismo rapinoso, del consumo di massa dei “foresti”. Vetrina del salotto e del non fare.
Vetrina dei progettoni, dei comitatoni e delle miserie degli interessi di pochi. Vetrina delle stremate
speranze di salvaguardia, di integrità ambientale e di habitat dell’anima. Vetrina dell’immaginario
veneto e, nello stesso tempo, della sua faticosa insularità. Venezia si é sempre mostrata in vetrina,
spogliata nuda, laica e sincera, senza nascondersi e nascondere nulla al mondo che la considera sua,
extra-territoriale per civiltà dell’uomo.
La città d’acqua ha visto bruciare la Fenice e ha temuto, questo il punto, di cedere assieme ai suoi
lampadari. Con la ricostruzione Venezia ha il dovere di farsi vetrina, di sentirsi finalmente Arsenale
di se stessa.
Riccardo Muti accenderà il fuoco della musica spegnendo un’angoscia.