2002 maggio 5 Nordest il modello si evolve

2002 maggio 5 – Nordest: il modello si evolve. Serve un’anima locale al capitalismo globale
Fino a ieri, e per tutti gli anni novanta, il Nordest è stato il laboratorio delle fratture, delle
ricomposizioni politiche e, soprattutto, delle spinte alla modernizzazione del sistema italiano. Adesso
privilegia la fase per così dire socioeconomica, con epicentro il lavoro e l’impresa. In questa fase
storica, il Nordest gode di un crescente ruolo geopolitico. Da Venezia alla Baviera, si incrociano due
Europe, la nordica, più compatta, e l’adriatica, foriera di infiniti sud del mondo mediterraneo.
Attenzione, qui non c’è un pelo di retorica; soltanto nuda e cruda realtà quotidiana che ogni giorno
sbarca tra noi. Questa è anche un’area acefala, senza capitale, di un tempismo da manuale nel senso che
nasce a rete nel tempo delle reti manifestando con il tradizionale policentrismo urbano il capitalismo
orizzontale come indotto. Dio, Patria, Famiglia e Impresa. Questo tipo di «localismo» sembra fatto
apposta per il «globalismo». È un po’ come se il Nordest godesse oggi della clausola di nazione
favorita. Mentre il mondo si spalanca, qui le frontiere dell’Est si trasformano da barriere in cerniere;
mentre ci si apre al mondo frantumato, qui noi siamo da sempre esercitati proprio al frammento; mentre
i mercati internazionali pretendono flessibilità, qui la flessibilità nacque strapaesana, dall’ora et labora
senza orario al faso tuto mì delle origini.
E, infine, mentre la concorrenza si fa mondiale, l’homo economicus nordestino qui pensa in dialetto e
produce in inglese. Il punto è essenziale. Di qualcuno che ha perso il controllo noi siamo soliti dire che
è fuori di sé. Il tema del giorno consiglia appunto di vivere la fase globale senza perdere il controllo.
Fuori di noi, ma come tanti Marco Polo non come tanti dispersi della/nella modernità. È già stato detto;
serve ribadire. Il solo antidoto è il localismo, o meglio il cocktail del glocalismo, tra globale e locale.
Più incalza il global più serve il glocal, contrappeso di umanità: se il global tende all’unità, il glocal alla
differenza. Senza il primo, finiremmo pateticamente autarchici; senza il secondo, entreremmo in un
ingranaggio senz’anima, pari a quello forsennato dell’operaio-macchina di Charlot nel pedagogico film
Tempi moderni. Al global siamo destinati dai portenti della tecnologia; con il glocal si evita
l’impazzimento degli spazi del vivere quotidiano. Non è nuovismo da quattro soldi, questo, ma
vocazione a elaborare materiali di primissima mano come di vecchissima tradizione. Dopo la
migrazione epocale (di persone) e dopo l’export competitivo (di merci), il Nordest adesso esporta
anche imprese. Anzi, delocalizza all’estero o investe nel Sud d’Italia, sempre nel nome del capitalismo
dell’uomo qualunque, il più radicato, il più autonomo e, forse, il più cristianamente sociale.
Nell’enciclica Rerum novarum, Leone xiii profetizzava a mio parere il «piccolo è bello» quando
canonizz quasi la piccola e media proprietà. E venti anni fa, con la Laborem exercens, il papa di oggi
raccomandava che persino nel lavoro dipendente venisse garantita alla persona la consapevolezza di
«lavorare in proprio». Un valore in sé, a maggior ragione in un’area come il Nordest dove, per
sedimentazione fossile, famiglia e capannone hanno messo d’accordo con i schei anche il sottinteso
«perché non possiamo non dirci cattolici». Si era detto che è finito il lavoro, che la tecnologia avrebbe
archiviato l’idea stessa di «lavoratore». No, anzi il lavoro comincia e ri-comincia da capo, come
dimostrano le quasi centocinquanta professionalità in uscita dall’università. Come dimostrano il lavoro
al femminile e l’impresa al femminile. Come dimostra il boom del lavoro individuale, il cui record
italiano sta a Trento secondo l’ultimissimo rapporto del Censis. Anche un certo Veneto non esiste più, è
finito, è una cartolina color seppia. Anzi, il Veneto della piena occupazione, dell’export e del pil
durevoli dipende sempre di più dalla sua capacità di s-venetizzarsi per così dire. È già un altro Veneto
questo; gli studiosi dicono che presto sarà multietnico, multiculturale, multireligioso. Così, beninteso,
l’intero Nordest, stretto in mezzo tra il massimo della denatalità e il minimo della disoccupazione,

dunque non più autosufficiente e anzi affamato di immigrazione di ogni livello scolare: dai manovali
agli informatici. Del resto il lavoro è incontro, fare assieme, riconoscersi nei fatti, con-dividere,
identificarsi senza ulteriori impronte digitali. Fatti salvi doveri e diritti, è cittadinanza il lavoro. Ne ha
discusso ieri a Padova la Pastorale sociale della Chiesa del Triveneto. E ricordo che due grandi liberali
europei come Luigi Einaudi e il tedesco Ludwig Erhard insistevano mezzo secolo fa nel dimostrare che
non il benessere bensì la povertà rendeva materialistica l’esistenza. È la povertà che costringe l’uomo a
preoccuparsi senza requie della materialità della vita quotidiana; e le nuove umilianti povertà della
società del pil sono perfino più pesanti di quanto fossero le povertà nelle società pauperistiche. I nuovi
poveri di oggi sono i veri esclusi, e noi a Nordest, con una media di quaranta milioni di reddito pro
capite, non possiamo permetterci il sommo cinismo di accogliere il Sud «povero» del mondo per
trasformarlo in «nuovo povero» del Nord del mondo, insicuro lui di noi e noi di lui. Sarebbe oltretutto
un Vangelo alla rovescia oltre che un errore economico. Il lavoro – ha ragione don Livio Destro nel
farmelo notare – è davvero l’esperienza più globale dell’umanità. Aggiungo che il glocalismo è il
globalismo a misura d’uomo, anche se da uomo della mia generazione confesso di sentirmi un po’
sopraffatto da entrambi. Questo è un tempo di portenti, occasioni e insidie, ma è poi mai esistito un
tempo non insidiato? Della globalizzazione, come ieri della scoperta dell’America, si può soltanto
prendere atto e fare buon uso, in sicurezza. Ripeto da sempre che nessuno ha definito il nostro tempo in
modo più sintetico e completo di Paolo vi, con due soli aggettivi: «Splendido e babelico». Appunto.
5 maggio 2002