1996 marzo 24 Giorgio Lago provocatorio

MessaggeroVeneto
1996 marzo 24 – Giorgio Lago provocatorio
Terra di Nordest dove sta covando una rivoluzione
Pizzaro, Cortés e i conquistadores arrivavano nelle Americhe dall’Estremadura, la regione più
scalcagnata e marginale della Spagna; non venivano dalla Castiglia, cuore del potere, che, dopo aver
unificato il Paese cacciando i mori, si era isterilita nella presunzione degli hidalgos. Ammesso e non
concesso che le storie siano parallele, viene da chiedersi in quale delle due ascendenze si riconosca
Giorgio Lago, direttore del Gazzettino e autore di Nordest chiama Italia per Neri Pozza, in libreria
dall’altra settimana per ricordare a futura memoria l’origine e il fine della «rivolta dei sindaci», e anche
– senza tanti pudori – il ruolo di fiancheggiamento del giornale. Lui taglierà la testa al toro e risponderà
che la Catalogna delle autonomie è il suo modello. Vediamo un po’: il Veneto, fino agli Anni
Cinquanta serbatoio di emigranti, è diventato la mecca dell’industrializzazione diffusa, con punte di
sconvolgente dinamismo, vedi Benetton e Del Vecchio. Gigante economico ma nano politico, diventa,
per forza di cose, un cuneo piantato nel ventre molle di un’Italia allo sbando, con due possibili esiti: o
la contaminazione (la moneta cattiva scaccia la buona) o la rivolta. Prende quest’ultima strada e si
mobilita contro «Roma ladrona», la burocrazia paralizzante, l’invereconda attitudine a fare della
politica il festival delle chiacchere. La rivolta dei sindaci è la metafora di questo disagio.
Giorgio Lago, in tutto questo, non fa da comparsa; e neanche da registratore. Scende in campo e usa la
penna come un piccone. Dà bòtte da orbi, sanguigno e passionale, alla Turoldo, con tanti saluti all’
aplomb anglosassone della testimonianza asciutta e neutrale. Sale anche in cattedra, come
all’assemblea di Marghera qualche mese fa, e invita i sindaci a stanare gli onanisti della politica. Si
diceva, allora, che si sarebbe candidato, e non è accaduto; e poi che si sarebbe ritirato dalla direzione, e
questo potrebbe accadere alla fine di giugno.
Lago spiega nel libro (formalmente un libro-intervista, dove però l’intervistatore – Gianni Montagni, ex
caporedattore del Gazzetino – fa da mosca nocchiera all’intervistato) le ragioni di questo suo
coinvolgimento press’a poco con due ordini di argomentazione. Il primo ricorda Oscar Wilde: chi, di
una questione, guarda sempre le due facce finisce per non vedere nulla. Il secondo richiama la coerenza
personale di chi aveva conteso il passo prima agli onnivori dorotei veneti e poi al tandem Bernini-De
Michelis. Perfetto. Sono fuori discussione l’indipendenza di giudizio e l’onestà intellettuale, che sono i
pilastri di un’intelligenza aperta e, quindi, problematica. Volendo cercare il pelo nell’uovo, su una cosa
Lago scivola, ed è nell’attribuire al giornale (e quindi anche a se stesso) il merito della svolta.
Al che uno si chiede, prendendola per buona nel caso della rivolta dei sindaci, perché mai la premiata
ditta Bernini-De Michelis abbia dovuto attendere i giudici per togliere il disturbo. Al di là dei sofismi
sulle primogeniture, l’uovo e la gallina, una cosa è certa: che nei tanti anni passati alla direzione del
giornale veneziano Giorgio Lago ha impartito, anche quando non saliva in cattedra, una bella lezione di
passione e coraggio civili. Che non è da poco.
Qualche appunto, invece, meritano quei passi in cui Lago arruola il Friuli (a Trieste, bontà sua, concede
di far parte per se stessa) in un Nordest inteso come progetto politico – Lago tira in ballo la Prussia e la
sua funzione coagulante – e non come espressione geografica. E’ il riemergere di una cultura viva
prima sotto lo strame della miseria e poi sotto la pelle del boom? C’è chi, dalle nostre parti, sostiene

anche questo. Lui, di rincalzo, parla di «campanilismo isolazionista». Troppo semplice, per tutte e due
le parti. Le riserve ripetutamente espresse anche su questo giornale riguardano la preoccupazione che la
legittima aspirazione veneta a una maggiore autonomia induca, nel lungo termine, un appiattimento
della nostra; e che la calamita veneta porti allo sradicamento di una specialità che ha intatte le sue
ragioni di esistere, qui come nel Trentino-Alto Adige, dove pure sono state espresse analoghe
resistenze.
E’ vero che Lago non intende questo Nordest come un monolite, bensì come un’unità policentrica; ma
c’è, nel suo argomentare -, e, non da ultimo, in un certo qual complesso di superiorità – una sottointesa
volontà, come dire?, omogeneizzante sul piano istituzionale. Vedi la Prussia. E’ una riserva, questa,
avvallata proprio dal fatto che Lago tende a banalizzare simili preoccupazioni come frutto di
frustrazione o – peggio – di diffidenza etnica. Nessuno si scandalizzava quando era De Michelis ad
affabulare di un Nordest (comprensivo anche dell’Emilia Romagna) connotato da una visibilità
economica e destinato a bilanciare le aree-sistema al di sopra delle Alpi.
Ciò precisato, si deve ammettere che il libro-intervista è un invito a nozze per chi abbia voglia di
riflettere e l’onestà di fare autocritica. Andiamo a caso: si sono mai chiesti i friulani perché
l’Estremadura veneta sia esplosa con tanta veemenza, a dispetto di tante regole e di ogni protezionismo
anche regionale? Ancora: non sarà che la nostra (relativa) debolezza è la conseguenza di una certa
sterilità progettuale di cui sono lampante manifestazione certe crociate scatenate su falsi obiettivi, come
le quattro sedi Rai in una regione di un milione 200 mila abitanti scarsi, quando basterebbe molto meno
per riequilibrare le voci; che il «paradigma di Aquileia» – ambiziosissimo alla nascita – ha perso nel
suo breve tragitto il suo smalto, e che la sua trasversalità ha inciampato nella quotidianità della politica
e la sua utopia in un nominalismo altisonante; che la stessa difesa della specialità rischia di scivolare in
una battaglia di retroguardia se la si vuole condurre da dietro le muraglie cinesi in un mondo che alle
nostre spalle è divenuto un cortile; che potremmo essere condannati a fare da vaso di coccio sballottato
tra vasi di ferro?
La riflessione di Lago, a contrariis, offre numerosi spunti a una riconsiderazione strategica del nostro
essere Regione speciale, sul versante sia degli strumenti sia degli obiettivi, per poter dialogare con le
realtà vicine, a ventaglio dal nostro Nordest al nostro Sudovest, in termini costruttivi, vantaggiosi per
noi senza essere di peso per gli altri. Nell’Italia dei campanili sarebbe sempre ora smettessimo di
produrre astratti furori, per cominciare a generare idee e progetti da una ricognizione rigorosa delle
risorse disponibili, e a cooperare nel rispetto delle altrui diversità. Così nessuno avrebbe forza o
interesse a insidiare le nostre.
Eugenio Segalla

marzo 1996