1996 maggio 5 Un pericolo mortale

1996 maggio 5 Un pericolo mortale

Se vogliamo parlare seriamente di autonomia, il Nordest non prende lezioni da nessuno. A cominciare
dal Trentino e dal Friuli Venezia Giulia, giustamente gelosi della propria “specialità” in uno Stato
che da decenni non molla l’osso centralista, anzi se lo tiene sempre più stretto fra i denti.
Non va a lezione nemmeno il Veneto, nemmeno se in cattedra sale la Lombardia. Il Veneto ha
partorito l’idea leghista, la prima contestazione al potere romano, il valore di un modello economico
agganciato anche culturalmente al territorio: lo fece a costo di pagare le prime accuse di razzismo,
beotismo, egoismo, separatismo da osteria.
Il Veneto ha fatto di più, superando il campanilismo e aprendosi al Nordest: con i sindaci, da Trento
a Venezia, da Trieste a Verona, ha sbattuto sul tappeto la prima pietra delle riforme. Il potere ai
Comuni, la rivoluzione della finanza locale, la fine dell’amministrazione come confisca
dell’autonomia da parte dello Stato burocratico.
Il Nordest non va a lezione perché ha fatto di più. Ha tenuto insieme l’idea del federalismo forte della
Lega Nord con l’emergere del federalismo da sinistra e con la riscoperta dell’autonomia da parte dei
cattolici. Non solo. Oggi nella coscienza popolare del Nordest il federalismo risponde
contemporaneamente alle aspettative degli operai e degli imprenditori, dei giovani e degli economisti.
“Un bisogno”, lo ha definito proprio ieri il prof. Rullani, docente di strategia dell’impresa a Cà
Foscari.
E sono sicuro che riuscirò a spiegarmi con i nostri lettori quando affermo che anche il “Gazzettino”
ha fatto la sua parte ed ha la coscienza a posto. Da dieci anni le abbiamo tentate tutte per alimentare
a Nordest la cultura della responsabilità, dell’autonomia come plusvalore, della riforma dello Stato
come madre di tutte le riforme. Tra le risate e il compatimento di un intero ceto politico, sostenemmo
negli anni ottanta che il minimo, ma proprio il minimo, dovesse comportare la trasformazione di tutte
le Regioni a statuto ordinario in Regioni a statuto speciale.
Siamo stai l’unico giornale federalista d’ Italia, senza mai esitazioni. Abbiamo appoggiato le ragioni
della protesta che premiava il voto leghista, senza cadere nella trappola di chi guardava dall’alto, con
la puzza al naso, un nuovo ceto ruspante, poco incline alla bella calligrafia della prima repubblica.
Perché ricordiamo tutto ciò? Non certo per farci belli e per lisciare il pelo al Nordest. La ragione è
un’altra: chi ha creduto e crede in tutto questo, rifiuta ogni sillaba di quanto affermato ieri da Bossi,
soprattutto la sua premessa: “Io ritengo che il federalismo non sia più utile”.
Bossi conferma così una nostra tesi non di oggi. La tentazione secessionista nasce in Bossi non perché
gli negano il federalismo ma quando teme che il federalismo si realizzi. La sua Repubblica del Nord
sarebbe tutto fuorché federalista, figlia di una violenza, non di un patto per rifare dalle basi lo Stato
come accadde alla fine della guerra in Germania, ma non in Italia, centralista con il fascismo,
centralista con la democrazia.
Una roulette russa sulla pelle degli italiani. Bossi secessionista perché Roma non fa il federalismo;
Roma immobilista perché Bossi brandisce il secessionismo, secondo la disperata sintesi fatta ieri da
Cacciari, federalista convinto, altro che “Giuda” secondo l’epiteto di Bossi.
C’è una sola strada per riportare la riforma dello Stato al centro della questione-Italia e del caso-
Nordest: che Romano Prodi presenti subito, come primo gesto del suo governo, le prime misure di
federalismo. Trasformare cioè, da subito, il suo federalismo elettorale in federalismo di governo.
Siamo oramai circondati da neo-federalisti, ma il solo modo per dimostrare la provvidenziale sincerità
delle conversioni è di provarle senza indugio. Non perché se lo aspetti Bossi, che punta anzi
sull’inerzia altrui, ma perché lo si deve agli italiani, fino a prova contraria non ancora etnicamente
separati in “boemi” e “slovacchi”.
Corriamo un pericolo mortale. Non per il secessionismo minacciato da Bossi, che uccide in un colpo
solo sia la finzione del “federalismo” sia il trucco dell’”indipendentismo”. Il pericolo nasce dal fatto

che, speculare al modello cecoslovacco di Bossi, da una parte la Padania-Boemia dall’altra l’Italia-
Slovacchia…,abbiamo l’immobilismo istituzionale, le oche del vecchio Campidoglio Costituzionale,
i retorici “non ci sto” del Quirinale che vogliono dire “tutto stia come sempre”, un ceto politico che
per avere l’alibi di non fare il federalismo invoca proprio il secessionismo di Bossi.