1996 agosto 9 Roma dorme, Bossi corre

9 agosto 1996 – Roma dorme Bossi corre

Nessun dorma, avverte da tempo Umberto Bossi. Ma a Roma tutto tace, sogni d’oro. Da quando il leader
della Lega ha optato per Gandhi, mahatma in versione padana, «grande anima» della repubblica del Nord,
il Palazzo ha tirato un sospiro di sollievo, consolato dalla non violenza e immemore della disobbedienza
civile che della prima divenne l’arma micidiale. Bossi fa sul serio soprattutto quando non viene preso sul
serio. Il ceto politico si angoscia per un po’ di ostruzionismo, vecchio quanto i parlamenti, ma non batte
ciglio per l’adunata del Po del 15 settembre, la «marcia del sale» nell’immaginario lumbard. Il Gange
leghista. Con una differenza che non sarebbe sfuggita al Gandhi vero. La sua era la «non violenza dei
deboli»; questa la «non violenza dei forti», sconosciuta nell’India della fame di massa, tutta da scoprire
nel Nord degli schei. In barca o a piedi, con ogni mezzo, Bossi punta a un milione di persone. Se così
fosse, una enormità: uno su quattro elettori leghisti, un abitante su trentadue della Padania inventata a
tavolino. Bossi presenta il 15 settembre come una festa popolare, Roma lo declassa a sagra strapaesana.
In realtà non sarà né questa né quella, come s’illude chi sottovaluta il senatur, chi conosce poco la Lega
e chi misura il Nord a spanne di sondaggio. Sul Po si farà politica, non colore celtico. Sarà la prima
manifestazione ufficiale, di massa, delsecessionismo, con i partiti invitati ad assistere al primo vagito
dello Stato nascente. Una data storica, di una storia che cominciò nel 1861. A qualcuno dice ancora
qualcosa? Oggi nessuno potrebbe imputare a Bossi mancanza di chiarezza. L’addebito valeva semmai
fino al 21 aprile scorso, poi stop. Dalla stessa notte del 21 aprile, a urne politiche aperte, ogni equivoco
ha abbandonato il campo lasciando una lapide: «Il federalismo è morto, la Padania se ne va da sola». Chi
non ha capito se la prenda con tutti tranne che con Bossi il quale, per risultare ancora più chiaro, ha
impartito a Irene Pivetti la lezione «esemplare». A uso interno soprattutto, per intimidire amministratori,
parlamentari e dirigenti leghisti che, a cominciare dal Nordest, insistono sul federalismo. Che cosa aveva
sostenuto di così intollerabile l’ex presidente della Camera nell’intervista a questo giornale?
Testualmente: «Una Padania indipendente dentro un’Italia federale». Il fatto è che il riconoscimento della
Padania non basta più a Bossi, né un’«indipendenza» qualunque, alla fiamminga o catalana o cantonale
cara al professor Miglio. L’eresia della Pivetti sta tutta in quella dizione «Italia federale», per quanto
ultimissima foglia di fico di una qualche unione (statuale), se non proprio unità (nazionale). Per Bossi è
federalismo la parola revisionista, l’ultima maschera del centralismo. A dispetto dello statuto tuttora in
vigore, la Lega prima l’ha imposta, poi ripudiata senza congresso. «Il congresso sono io». Inutile
nasconderlo, un successo Bossi se l’è già garantito al Nord: il secessionismo non è più un tabù. Se ne
discute come di un programma politico qualsiasi, all’unione commercianti come al bar sport, valutando
vantaggi e svantaggi, ostacoli e sostegni, fatturati e monete, lasciando su uno sfondo sempre più sbiadito
l’idea di un Paese da tenere assieme nonostante tutto. Laboratorio riformista, lo stesso Nordest fotografa
questo spaesamento, una tentazione finora tenacemente respinta. Un dirigente degli artigiani confessa:
«Fa paura che il secessionismo non faccia più paura». Un rapporto Censis sul mondo agricolo segnala
che la stragrande maggioranza dei coltivatori diretti si dichiara «molto critica» nei riguardi dell’intera
classe politica. Studioso della Lega, il professor Diamanti ha spiegato in un’intervista al «Piccolo» di
Trieste: «Qui a Nordest il lavoro viene prima della religione. La vera Chiesa sono le associazioni degli
industriali o degli artigiani!». Paradossale ma non troppo per un modello socioeconomico che ha fame e
fretta di servizi, di cambiamento, di risposte. Di «credere». Innovatore accanito, liberal anche nella sua
azienda metalmeccanica da poco quotata in Borsa, il presidente degli industriali del Veneto consiglia a

Prodi la lettura de La fine dello Stato-nazione del giapponese Kenichi Ohmae, da poco uscito anche in
Italia. Mario Carraro è più che mai convinto che i confini della politica non coincidano più con quelli
dell’economia e che soltanto la riforma federale dello Stato possa accompagnare «l’emergere delle
economie regionali». In gioco, lo sviluppo o il pantano, la solidarietà o la disgregazione. Presentando il
governo la mattina del 31 maggio alla Camera, Prodi promise appunto il «cambiamento radicale» dello
Stato definendo «il federalismo la grandezza di un Paese», quasi a evocare John Stuart Mill che
considerava possibile conciliare le piccole patrie con la grande soltanto attraverso la «mutua simpatia».
Il secessionismo strisciante nasce dalla convinzione che, se non nulla, accadrà o troppo poco o troppo
tardi. Una risposta nichilista ai languori bicamerali, al decentramento dei timidi. Mentre ci si aspetta un
Paese finalmente normale, spaventa questa normalità del secessionismo. Il discuterne se convenga o no,
tutto qua, senza alcun disturbo culturale o istituzionale, secondo un criterio di mero utilitarismo, a freddo.
Il fascismo ieri come autobiografia di una nazione, il secessionismo domani come la sua autopsia. Ma
mette infinitamente più paura la Roma distratta che guarda al Po al massimo come a una questione
ambientale o al 15 settembre come alla data di un palio. Prova fin troppo palese della cattiva coscienza
delle istituzioni. Attenzione. Il Bossi gandhiano non sarà l’ultimo Bossi.

Ha resistito nel 1992 al silenzio di stampa e tv, nel 1994 al ribaltone politico, nel 1996 alla solitudine
elettorale. Oggi conta su molti alleati, l’immobilismo, il potere burocratico, la mancata percezione del
pericolo, l’idea consolatoria di una Lega degli abissi, balneare, folkloristica ma innocua, minacciosa ma
minoritaria, buona per le marce, non per le rivoluzioni. È stato chiesto a Fabrizio Comencini, a capo della
Lega nel Veneto, che cosa vogliono i suoi elettori, adesso. Lui che passa per un moderato nell’area tuttora
più federalista del Nord, ha risposto: «Se guardo al sentimento diffuso tra militanti e dirigenti, è la
secessione». Celodurista o alla veneta, il secessionismo apre anche un grande vuoto che soltanto un
federalismo altrettanto perentorio e non caricaturale potrebbe riempire. Un federalismo di governo e di
riforme, di cose fatte, ben visibili da capo Passero al Brennero. Una, cento, mille bolle
d’accompagnamento da cancellare. In caso contrario, il secessionismo del Po è destinato a crescere e a
lacerare prima il Nord poi l’Italia. E un giorno Umberto Bossi potrebbe far fare alla non violenza la stessa
fine riservata al federalismo. Nonostante i distratti, il 15 settembre non sarà una domenica come tante.
Nemmeno per Irene Pivetti.

9 agosto 1996