1993 gennaio 20 Non poteva andar meglio

1993 gennaio 20 – Non poteva andar meglio

Non poteva andar meglio soprattutto per chi, come noi, considera il referendum un grande strumento
di democrazia. Detestato dal sistema, amato dall’opinione pubblica.
La formidabile affluenza cancella per sempre un luogo comune. In crisi non è la democrazia; allo
sbando è questa rappresentanza.
Anzi, la colpa più grave del ceto di potere consiste nell’aver dissipato un patrimonio popolare del
quale si può andar fieri. Abbiamo lo Stato che funziona peggio, ma non siamo affatto un popolo da
buttar via come si tende troppo spesso a far credere.
Se, attraverso le nuove regole conquistate ieri ce la faremo ad amministrare e a governare meglio il
Paese, cesseranno i complessi di inferiorità nei riguardi degli stranieri. La partecipazione agli otto
referendum ci nobilita politicamente, al di là del Sì o del No. Altro che menefreghisti, altro che
giovani disimpegnati, altro che donne distratte, altro che anziani scettici: quando si gioca pesante sul
destino dell’Italia, in pochi mancano davvero all’appello. Con un particolarissimo motivo d’orgoglio
per tutti noi: il Veneto, il Nordest, Padova, ancora una volta leader della partecipazione.
Tocchiamo ferro. Un giorno forse i politici europei ricorderanno quello italiano come un caso
virtuoso. La fine di una oligarchia ladra e incapace attraverso l’esercizio del voto e il ripristino della
legge penale.
Nel giro di un paio d’anni è andato in frantumi ogni punto di riferimento. A cominciare da Craxi, il
palazzo lamentava la presunta “confusione”. Ebbene, dopo il Sì del giugno 1991, la protesta politica
del 5 aprile 1992 e l’esito di questo 18 aprile 1993, si può tranquillamente concludere che a
confondersi è stata la partitocrazia, non certo il cittadino.
Nonostante otto colori, schede generiche, quesiti arzigogolati, la qualità della scelta balza agli occhi.
Sulla droga, unico tema lacerante per le coscienze, il Paese si è spaccato in due segnalando scrupolo,
maturità, preoccupazione, la libertà più segreta e personale.
Un voto dunque straordinariamente consapevole. Basti pensare al poderoso Sì contro le
Partecipazioni statali e la nomina politica dei vertici delle Banche. In quei due Sì si legge l’indicazione
più cristallina: privare i partiti dei loro feudi; punire l’economia dei privilegi, i cui conti vengono alla
fine sempre presentati al contribuente. Esattamente come i conti di Tangentopoli, dalla prima
all’ultima lira a carico di chi paga le tasse.
I Sì sono politicamente l’uno legato all’altro, parchè ratificano tutti la sfiducia in questo Stato dei
partiti e la fiducia in regole innovatrici. L’eliminazione di alcuni Ministeri testimonia che
l’affidabilità della burocrazia centrale ha toccato il minimo storico: nessuno ha voluto cancellare il
coordinamento – ora da regolare per legge – ma tutti hanno deciso di ripudiare la filosofia romana
del denaro pubblico.
A forza di evocare truffe, apocalissi e inganni di ogni risma, il partito del No sembrava un esercito,
ma era una tigre di carta. L’opinione pubblica ha capito due cose molto semplici. La prima: non si
può cambiare con le regole del passato. La seconda: suonava molto strano che la lezione di
democrazia venisse da estremismi che la democrazia non hanno mai amato.
Questo. Si tiene a battesimo la seconda Repubblica. Ci aspetta un lavoro duro ma esaltante, che
obbliga a non smobilitare. Con lo sfascio alle spalle, la rivoluzione del voto continua a marce forzate.