1991 febbraio 17 Storia & cronaca

Testata: GAZZETTINO
Edizione: PG
Pagina: 11
Data: 17/02/1991
Autore: Giorgio Lago
Tipo:
Argomento: IRAQ
Persone:
Didascalia:
Descrizione:
Titolo: STORIA & CRONACA / Tutto è chiaro dal 2 agosto in poi.
Ma la vera questione (Medio Orientale) arriva molto più da lontano
gli scenari
di Giorgio Lago

Al due agosto in poi, molti hanno sperato che un colpo di stato facesse fuori Saddam Hussein.
L’eliminazione fisica per evitare una guerra: la crisi scongiurata dalla shakespeariana uccisione del
tiranno. Già Sant’Agostino, pessimista quanto Machiavelli sulla vera natura degli Stati, aveva fatto
notare che Roma fu fondata dal fratricida Romolo e che la prima città evocata dalla Bibbia partiva da
Caino, altro fratricida. Nessuno avrebbe mosso grandi obiezioni se la Cia americana o il Mossad
israeliano avessero favorito in Irak una soluzione «alla Ceausescu». Anche in queste ultimissime ore, a
un mese esatto dal via della guerra del Golfo, la madre di tutte le soluzioni resta la fine della dittatura
personale di Saddam. Soprattutto Bush, l’Arabia Saudita e gli esiliati del Kuwait lo vanno dicendo
senza mezzi termini, convinti che il «nuovo ordine» in Medio Oriente dovrebbe escludere il raís di
Bagdad. Se Saddam si appella al terrorismo planetario, gli alleati è come se avessero posto una taglia
in petrodollari sulla testa del dittatore iracheno. Anche quando impasta e stritola gli stessi uomini che
s’illudono di dominarla, la Storia non è mai esente dalle personalizzazioni. Ecco perché nella guerra
dell’Onu, si combatte anche la guerra di due leaders, di Bush e Saddam, a eliminazione diretta. Questa
guerra è straordinariamente complicata o eccezionalmente semplice a seconda della prospettiva. Si può
ragionare partendo dall’invasione del 2 agosto; si può riflettere andando a ritroso nel tempo. Se questa
storia comincia il 2 agosto, vale un giudizio; se il 2 agosto è soltanto l’ultimo capitolo di un lungo
processo, allora il dubbio prevale sulle certezze. Il 2 agosto l’Iraq annette militarmente e
sanguinosamente il Kuwait. La quarta potenza militare al mondo cancella in poche ore uno sceiccato
grande quanto il Lazio ma proporzionalmente ricco quanto nessun altro Stato al mondo. Qui Saddam
Hussein rievoca Hitler che, in nome della storia o dell’etnia o degli interessi vitali, assorbe, i Sudeti,
l’Austria… Il complesso di Monaco L’Occidente rivive il complesso di Monaco, cioè del cedimento

alle dittature. Con l’aggiunta di un interesse molto visibile (il petrolio) e di un sospetto molto concreto
(che il Kuwait sia soltanto la prima di una serie di annessioni ai danni degli Emirati e dell’Arabia
Saudita). Con questi dati sul tavolo, ogni sfumatura appare perlomeno colpevole di ambiguità.
Soprattutto perché Gorbaciov ha cambiato in pochi anni il mondo, quindi l’Onu, dove si realizza
un’intesa fino all’altro ieri tassativamente esclusa: l’Urss vota l’ultimatum a Saddam e il sì all’intervento
armato «per liberare il Kuwait» né più e né meno che come gli Usa, mentre la Cina si astiene. Dopo il
Muro di Berlino, crolla il mito del Veto; nel nome del Golfo e del diritto internazionale il «niet»
sovietico scompare dalla diplomazia delle super potenze. L’ultimo pezzo di guerra fredda fa la stessa
fine dei monumenti a Stalin. Qui la guerra si autolegittima. Formalizzando prima l’embargo
economico poi l’opzione militare, l’Onu pone il casco blu in testa a Bush. Un capolavoro della Casa
Bianca; un calcolo dell’Urss da pochissimo proclamata «nazione economicamente favorita» dagli Usa;
una svolta che consente l’alleanza di 26 Paesi alla quale aderiscono, miracolo dei miracoli, 13 paesi
islamici. Se tutto si concentra dal 2 agosto al 17 gennaio, la crisi appare coerente, guidata da un timer.
L’invasione quale innesco; la Santa Alleanza per la restaurazione. Gli stessi distinguo tra embargo o
guerra risultano retorici perché a quel punto nessuno cerca più la pace, né Bush né tantomeno Saddam.
A gennaio ci si accorge che cinque mesi sono stati azzerati perché, più si parlava di pace, meno si
voleva. Se il consorzio internazionale mette la guerra in carta bollata e la vidima al 100% come
«inevitabile», perché mai questa guerra divide, lacera, frantuma, suscita cattiva coscienza e ribalta la
saggezza convenzionale? Perché nell’armadio dell’Occidente, e dell’Europa dall’Atlantico agli Urali,
sono stipati troppi scheletri. Tutti, nessuno escluso, databili ben prima del 2 agosto. La tentazione
neocoloniale Ma qui bisogna mettere in gioco se stessi, ripudiare gli opportunismi, guardarsi nello
specchio della storia, vincere i pregiudizi così duri a morire anche in democrazia, anche dove l’opinione
pubblica & l’informazione hanno meglio camminato sulla strada della ricerca e del controllo. Il
fondamentalismo ha molti volti e non tutti portano alla religione; anche le democrazie possono
ammalarsi di fondamentalismo quando il metro dell’interesse e il senso di potenza tendono a reprimere
altri modelli di civiltà. Il disagio della guerra scoppia quando si passa dalla cronaca alla storia. A
cominciare dalla tentazione neocoloniale, che intreccia petrolio e armi, mercati e influenze, equilibri e
baratti. Un esame di coscienza scomodo. In questo senso, Saddam Hussein è figlio nostro, prodotto
più che legittimo dell’uso che soprattutto Stati Uniti e Urss hanno fatto del Medio Oriente. Se oggi non
scandalizza nessuno che si punti alla eliminazione fisica del raís di Bagdad, la stessa strategia sarebbe
sembrata blasfema soltanto un paio d’anni fa. Ancora nel 1988 l’Onu trattava Saddam come un
baluardo degli arabi laici alle prese con la «guerra santa» di un certo Islam. La lettura dei giornali
occidentali degli interi anni ’80 non risparmia nessuno dalla vergogna; diventa una lezione con la quale
dobbiamo fare i conti per capire ciò che sta sotto gli occhi del mondo, oggi. La Francia ha fornito a
Saddam il nucleare; la Germania il chimico, la Svizzera il batteriologico; colera compreso. L’Urss gli
ha consegnato più armi di chiunque; ditte tedesche hanno lucrato persino in pieno embargo; il 10% del
potenziale iracheno è di marca francese ed ha accomunato governi d’ogni colore. Nonostante la
dissuasione di Israele, anche gli Usa hanno venduto a Saddam laser, esplosivi, armi chimiche. Quando
Saddam poteva tutto. Finché era funzionale all’Occidente e ai signori del petrolio, Saddam poteva
tutto. Ammazzare gli avversari, gasare i kurdi, invadere l’Iran, militarizzare palmo a palmo il cuore
dell’area mediorientale. Il Kuwait lo finanziava pronta cassa; il mondo lo armava; l’economia
internazionale lo sosteneva. Un industriale veneziano definisce gli iracheni «i tedeschi del Medio
Oriente», per la decisione negli affari, anche per l’organizzazione. Saddam non è mai stato un problema
per nessuno, tranne che per Israele, fino a quando non ha virato il cannone dall’Iran al Kuwait, dal

fondamentalismo al greggio. In fondo, nulla di clamoroso né di nuovo sotto il sole. Più che altro la
conferma di una smisurata, cronica ottusità dei blocchi. Non una visione politica, ma la peggior
realpolitik che arma un Paese per disarmare un altro, secondo un modello ciclico dove a turno gli amici
di ieri sono i nemici di domani e viceversa. Dove, come nel caso del Libano «pacificato» dalla Siria,
un’alleanza può anche essere pagata all’antica. In territorio. L’ombra di un colonialismo vecchio e
nuovo appanna le ragioni del diritto. Il che non significa essere neutrali né pacifisti di quel pacifismo a
senso unico che da decenni sporca la vera cultura di pace; significa soltanto ricercare le radici del male
e farsene carico. Compito questo che spetta soprattutto all’Occidente, perché qui noi sappiamo meglio
che altrove come il sonno della ragione generi mostri. Un mese di guerra ha dimostrato con
un’evidenza superiore ad ogni previsione quanto sia armato Saddam, quanto sia stato meticoloso il suo
lavoro, quanto premeditato il suo espansionismo. Pur senza scomodare i miti babilonesi o
Nabucodonosor, la resistenza passiva a sessantamila incursioni aeree spiega che il 2 agosto resterà nella
storia soltanto come data convenzionale. L’incubo di Israele Saddam ha cominciato a invadere il
Kuwait molto prima; quando non ha piegato l’Iran; quando si è ritrovato con una macchina da guerra
che non poteva più fermarsi. Quando, forse, ha immaginato che i petrodollari degli sceicchi, le armi di
mezzo mondo e la gratitudine dell’Occidente gli avrebbero consentito di andarsi a prendere un piccolo
Stato fondato su una grande tribù, avviato a celebrare l’anniversario di soli, precari trent’anni di
indipendenza. Saddam ha costruito la trappola con le sue stesse mani. Annettendo il Kuwait, ha
offerto l’occasione irripetibile di revocargli con la forza tutto il credito che gli era stato concesso. Dal 2
agosto al 17 gennaio la pace non era più realistica, perché qualunque pace avrebbe lasciato intatto
l’Iraq. L’Iraq non era più il garante degli equilibri di un’area; era la incontrollata potenza di quell’area;
l’incubo di Israele; lo squilibrio, la rottura di pesi e contrappesi. Saddam ha sbagliato ogni calcolo
perché per la prima volta ha tentato di lavorare in proprio: gli interessi erano a quel punto soltanto suoi;
non coincidevano più con alcuno. Il suo isolamento diplomatico era soltanto la fotocopia della
solitudine negli obbiettivi. Saddam ha giocato d’azzardo, illudendosi che il 40% delle riserve
petrolifere del mondo potesse diventare una questione tra arabi quando tale non è mai stata.
L’Occidente ha risposto con la massima durezza perché pentito: Saddam aveva l’insopportabile difetto
di rammentargli i suoi errori di prospettiva, il suo mercantilismo, la sua spregiudicatezza. Ha scritto
Winston Churchill nelle sue memorie: «Abbiamo tracciato i confini degli stati del Medio Oriente tra un
whisky e un thé, ma ho l’impressione che abbiamo bevuto più whisky che thé». Nella dissoluzione
dell’Impero ottomano, il colonialismo europeo disegnò un’area secondo linee spesso artificiali, che
tenevano conto più delle influenze che della storia. Anche qui l’Occidente ha maturato un debito di
responsabilità che non ha ancora onorato e che oggi può prendere a simbolo due destini paralleli:
Israele e i palestinesi.
La questione palestinese
Poco importa che Saddam Hussein abbia tentato l’alibi della questione palestinese per non mollare il
Kuwait. Il problema non diventa meno urgente perché a urlarlo tra le masse araboislamiche è un
dittatore che, in abilità e propaganda, ha preso qualcosa da Machiavelli, Richelieu, Goebbels e Ted
Turner, il magnate di Cincinnati che attraverso la catena televisiva Cnn ha sconvolto i tradizionali
canoni dell’informazione di guerra rischiando di essere strumentalizzato dal «nemico» pur di garantire
il diritto di cronaca. Qualunque sia la soluzione finale della guerra, i palestinesi resteranno più che mai
all’ordine del giorno. Speculari, nel diritto a una patria sicura, alla integrità dello Stato di Israele. Un
raffinato scrittore ebreo, Isaac Deutscher, polacco di Cracovia, fissò la precarietà di Israele

chiamandolo «Stato zattera», uno Stato di necessità sul quale il popolo dell’olocausto si era gettato
sopra alla ricerca di un approdo, un luogo, un territorio, “quel” luogo, “quel” territorio, l’eterna terra
promessa che ponesse fine alla dispersione e ai ghetti, alla paura e alle diffidenze. Dopo decenni, se
Israele è un po’ meno «Stato zattera» lo si deve all’Egitto di Sadat che pagò con la vita la colpa di fare
la pace sul serio; lo si deve all’America, senza la quale Israele avrebbe già pagato un altro olocausto, un
secondo sterminio di massa. Ma oggi Israele e l’Occidente sono chiamati ad uno sforzo supremo di
comprensione e di tolleranza proprio per disarmare il fanatismo, il sordo richiamo dei nazionalismi e
degli integralismi. La legge del taglione Non porta lontano la legge del taglione, l’occhio per occhio
dente per dente. Domani, a dispetto della guerra, potrà dimostrarsi strategica una più alta coscienza del
dramma palestinese. Se c’è un paese destinato a comprendere meglio lo sradicamento di un popolo,
questi dev’essere Israele, stato zattera costruito con il sudore e il sangue dello sradicamento. La storia,
persino il mito, ci può aiutare più della cronaca. La Bibbia, si legge nell’ultimo libro di Riccardo
Calimani, è frutto di una lunghissima elaborazione dentro la quale affondano radici iraniche,
panbabilonesi e anche di altre religioni semitiche dell’Antico Oriente». Popolo eletto non vuol dire
superiore, bensì chiamato a doveri particolari. E nell’etimo di Abramo, il primo ebreo, si coglie un
misterioso significato, «l’altra parte», forse allusione a un destino di comunicazione e di dialogo.
Questa è una guerra di tecnologia e di trincea, con un piede nel futuro e uno nel passato remoto. Viene
raccontata via satellite, ma già Senofonte descriveva che cosa significasse attendere il nemico da una
postazione fissa: allora erano greci e persiani, oggi iracheni e marines sulla stessa via della morte. In sé
non è una guerra nuova; nuova potrà essere la pace a patto di mitigare l’istinto di potenza. Cioè di
cominciare ad ascoltare «l’altra parte», la nostra diversità, lo stesso Islam. Non un generico richiamo
alla «pietas»; piuttosto un cambiamento della politica, quindi qualcosa di molto concreto, di
radicalmente realistico. Non l’utopia, ma l’opportunismo della pace; mai come oggi, la pace è un affare,
questo il punto. E quando la definisce «un’avventura senza ritorno», il Papa non recita una geremiade di
santa romana chiesa; enuncia una verità che vale per l’ateo quanto per il cattolico.
La pace inevitabile Di avventure senza ritorno soprattutto gli Stati Uniti hanno fatto esperienza in
Vietnam: tre milioni di americani vi prestarono servizio militare; 58 mila non ritornarono più; in 16
anni di guerra le vittime furono quattro milioni, il 10% della popolazione. Finì con l’ambasciatore
Martin portato via da un elicottero, la bandiera arrotolata sotto il braccio.
Ma gli americani sono gli stessi che hanno salvato l’Europa dal nazismo, generato nel cuore
dell’Europa, ben dentro il sottosuolo delle nostre aberrazioni. Gli americani sono gli stessi che ci hanno
abituato a conoscere la democrazia, fondata prima di tutto sulla scomodità dell’informazione. Il
segretario americano alla Difesa, Dick Cheney, si è l’altro ieri dichiarato «sbalordito» dalla macchina
da guerra di Saddam Hussein. L’Onu, gli Usa, dovranno ripartire da questo stupore per costruire
qualcosa di meno desolante di oggi; l’America potrà far ricorso al meglio della sua tradizione perché il
ruolo di «gendarme del mondo» non si limiti alla scelta militare. La storia consegna alla guerra del
Golfo un retaggio di iniquità e di sfruttamento; la cronaca fa temere il bagno di sangue, la tabula rasa a
Bagdad, la disperazione dei palestinesi, l’odio di massa verso l’Occidente, l’instabilità dei regimi e delle
alleanze. Non basta né la restaurazione del diritto né il ricupero del petrolio a uccidere il pessimismo.
Senza una rivoluzione della politica, anche chi vince può perdere. Se il mondo, a cominciare dagli Usa
e dall’Urss, porterà via dal Golfo un senso di inutilità, forse la guerra renderà inevitabile soltanto la
pace.
febbraio 1991