1987 marzo 29 Quel simbolo
1987 marzo 29 – Quel simbolo
L’incarico a un comunista è una mossa di Cossiga per garantire – dopo l’esplorazione di inesistenti
maggioranze – il massimo del consenso al quasi inevitabile scioglimento delle Camere. Ma la «signora
della crisi» allude, sia pure molto alla lunga, anche a una svolta neo-morotea o neo-berlingueriana nei
rapporti tra Dc e Pci? Aldilà delle liturgie istituzionali, il vero interrogativo oggi sta qui perché nessuno
è disposto a credere che Nilde Iotti rappresenti una scelta automatica, di mera ingegneria costituzionale.
Se voleva l’autogol, non c’è dubbio che al pentapartito sia riuscito un piccolo capolavoro. Ha liquidato
la stabilità, ha enfatizzato le divergenze, ha lasciato esplodere la mina dei referendum popolari per
totale inerzia sull’energia e la giustizia, ha inquinato ogni rapporto tra i cinque pur affermando
all’unanimità che esiste soltanto una maggioranza a cinque. Vista dall’estero, la crisi merita il lapidario
giudizio del francese Le Monde: «L’Italia ritorna a costumi politici che un po’ prematuramente aveva
creduto passati di moda».
Non ha vinto né Craxi né De Mita; hanno perso entrambi. I socialisti hanno negato l’innegabile,
mentendo spregiudicatamente sull’esistenza della staffetta di governo con la Dc a marzo: se si trattava
di un patto leonino, non andava sottoscritto; visto che fu un libero accordo, andava rispettato. I
democristiani hanno demonizzato i referendum nonostante che, come accadde ad esempio con il
divorzio, i referendum siano fatti apposta per abrogare norme in presenza di insanabili contrapposizioni
e dunque in assenza di iniziative di legge. Non si vede come un partito popolare possa ritenere
destabilizzanti i verdetti popolari.
La crisi del pentapartito ha così occultato la crisi dei comunisti, alle prese con non facili problemi di
identità, di trasformazione e di ruolo all’interno di una democrazia che in 40 anni li ha
progressivamente convertiti al pluralismo, all’economia di mercato, a strappi e strappetti da Mosca.
L’incarico alla Iotti diventa il simbolo oggettivo di una accelerazione nel rimettere in gioco il Pci, per
porre fine alla cosiddetta democrazia bloccata, senza alternativa.
Ma questa che, strategicamente parlando, sarà la svolta di una democrazia finalmente affrancata da
ogni insidia, non è da oggi un affare per nessuno, a cominciare dagli stessi comunisti che di tutto hanno
bisogno fuorché di frettolose scorciatoie verso il potere. Il rinnovamento del Pci non può dirsi
compiuto; persistono ambiguità nell’approccio al riformismo socialista; non convince il disinvolto
passaggio da posizioni anti-referendum, come ha ricordato Spadolini, alla mobilitazione di
«maggioranze referendarie».
Senza curarsi degli effetti, lo sfascio del pentapartito ha esaltato i ricatti sui contenuti, i personalismi
sui problemi, le speculazioni di partito sui risultati di governo. Ha abbassato i rapporti tra Dc e Psi a
livello di comizio; ha smembrato i laici, mai tanta impotenza di fronte all’arroganza dei grandi numeri
elettorali. Ha incattivito la questione nucleare e renderà «emotivo» non tanto un referendum quanto il
voto politico.
Come a metà degli anni ’50, nel passaggio tra centrismo e centrosinistra, ci avviamo a un lungo periodo
di fibrillazione.
marzo 1987