1987 agosto 9 Autonomia e/o razzismo

1987 agosto 09 – Autonomia e/o razzismo
Quando, su un’autostrada del Veneto, apparve la scritta «Forza Etna!», Renato Guttuso si chiese con
sconforto dove fosse mai finita la tolleranza dei veneti. Dietro il folkore e lo humour si nascondeva il
tabù anti-meridionale, estraneo alla migliore cultura della gens veneta.
Nel descriverne l’anima pittorica, Paolo Rizzi ha osservato che «la vita dei veneti è legata più ai ritmi
della natura che a quelli della storia», e la natura unisce più di quanto la storia non separi. Il Veneto, il
Friuli, il Trentino, la Venezia Giulia, l’intero Nord-Est non amano le frontiere forse perché ne
conoscono fin troppo le brutture.
«L’unione europea sta in cima ai nostri pensieri e in testa ai nostri interessi» disse De Gasperi nel suo
ultimo discorso. E, guardando al ruolo della Dc, lo statista trentino ammonì: «Bisogna che
rappresentiamo tutta la nazione».
Quando, durante il nostro «viaggio nelle Venezie e nel Friuli del Duemila», Sandro Meccoli interrogò
Carlo Sgorlon, lo scrittore friulano rispose: «Oggi in Europa abbiamo superato il macro-nazionalismo,
ma le piccole canagliate possono venire dagli egoismi locali, vedi friulani e triestini, o la Liga Veneta.
Non sopporto questa cultura della divisione. Sono un friulano fino in fondo, ma non sono un
nazionalista friulano».
Sta tutta qui la differenza tra autonomia e separazione, tra radici e razzismo, tra cultura e tabù. La gens
veneta ha il dovere di guardarsi in faccia nel momento in cui troppi equivoci inquinano la più che
sacrosanta domanda di autonomia.
Il caso della Dc veneta è molto istruttivo. Non per l’assenza di suoi ministri nel Governo Goria, ma
perché quel vuoto di potere – nel partito del 43,6% in Regione – ha toccato un nervo scoperto della
base popolare, una diffidenza che covava sotto l’apparente omologazione dei «cartelli» nazionali e
delle «correnti» d’altri golfi. Roma è diventata bersaglio quale centro clientelare della spartizione di
potere; a De Mita è stato anche rinfacciato di essere nato a Nusco.
I sepolcri imbiancati fingeranno che non sia accaduto nulla. Occorre invece chiedersi senza perifrasi
perché tanto livore anti-romano in una terra che da povera emigrò uomini e da ricca esporta merci; che
in Venezia condensa la civiltà dello scambio; che con Alpe-Adria persegue la possibile utopia di
un’integrazione tra Regioni appartenenti a blocchi opposti. Domandarsi perché lo stesso partito di
massa del Veneto si veda attraversare, su una questione politica, da brividi di separazione che
sembrano patrimonio esclusivo dei 100mila voti della Liga.
La risposta non può che essere questa: Dc o non Dc, ministri o non ministri, il Veneto sta approdando
alla fase matura della sua eccezionale trasformazione. Il che significa lavorare per una nuova
autonomia.
L’autonomia di una Regione che sente più di altre il bisogno di armonizzarsi con il Trentino e il Friuli-
Venezia Giulia; l’autonomia che l’elettorato chiede all’intera classe politica veneta quando si tratta di
dare ruolo nazionale al Veneto e al Nord-Est. Nessuna Vandea, ma nemmeno regione subalterna;
nessun separatismo, ma neppure marginalità; nessun attentato allo Stato unitario (non facciamo
ridere…), ma neanche passiva acquisizione di uno statuto regionale buono per allora, insufficiente per
oggi.

Altro che «Forza Etna!» e fobie sui «terroni»: questa è gramigna che impoverisce la vocazione del
Veneto. Che più che mai deve proporsi quale leader tanto dei livelli occupazionali o dell’impresa di
massa quanto di una seria pressione perché l’istituto delle Regioni compia in Italia il salto di qualità.
Comincia qui, dalle radici, non dal voto segreto, la vera riforma della politica.
Questa è l’unica autonomia che il Veneto ha il diritto-dovere di rivendicare. Europea, espansiva, che
domanda di più per dare di più non per abbandonarsi a un provincialismo che nella migliore delle
ipotesi sarà di basso progetto e nella peggiore assomiglierà a razzismo travestito da regionalismo.

agosto 1987