1987 agosto 3 Questo Veneto s’ha da fare

1987 agosto 03 – Questo Veneto s’ha da fare
Alla stragrande maggioranza di chi voto Dc importa pochissimo o nulla di correnti e conventicole, di
portaborse e di strategie da oratorio. Una setta di iniziati distingue tra dorotei e «corrente del Golfo»,
tra Bernini e Gava, tra ex bisagliani e rumoriani, tra Forze Nuove e sinistra, tra fracanzaniani e area
Zac: è casa loro, non nostra.
Chi vota Dc privilegia il centro politico, i valori moderati, gli interessi di ceto medio, la tradizione di
«partito popolare», l’appello della gerarchia all’unità dei cattolici, l’avversione al comunismo. Il resto,
tessere e preferenze, rappresenta un fenomeno inerziale: il massimo dello scenario è la bottega di
partito.
Tant’è vero che chi vota Dc senza conoscere le giaculatorie di segreteria s’indigna moltissimo per il
licenziamento di Zamberletti o per la stessa epurazione di Scalfaro: l’elettore medio si illude che conti
ancora essere dei buoni ministri; non si arrende all’evidenza della lottizzazione secondo correnti, sia
che ufficialmente esistano o che ufficiosamente siano state soppresse.
Il fenomeno riguarda tutti, non soltanto la Dc. Tra gli sparuti liberali sono successe cose turche prima,
durante e dopo il 14 giugno. E, a proposito di Zamberletti, Gianni De Michelis non ha trovato per
niente «scandalosa» la sua rimozione in piena Valtellina: nella logica della partitocrazia, «scandalo» è
una parola rimossa, in uso tra moralisti e bigotti.
Faccia nuovissima, clienti vecchi. Anche Goria ha dovuto fare i conti con il Sistema che lo ha allevato.
Nasce da questa persistenza di metodo lo scetticismo sulle riforme istituzionali: come immaginare che
riescano ad accordarsi per migliorare il rapporto tra Stato e cittadini quando i partiti restano
ultraconservatori al loro interno?
S’innesta qui anche la questione veneta. Di una Dc regionale che con il suo 43,6% – pari in Italia al
10% dell’intero partito – non ha dato al Veneto nemmeno uno straccio di ministro per la semplicissima
ragione che, a dispetto del ruolo e dello sviluppo di un’area, sono prevalsi personalismi e calcoli di
gruppo tali da disarmare la funzione di rappresentanza di interessi generali.
Inutile ribadire che le fortune del Veneto non dipendono da un ministro in più o in meno, democristiano
o no. Ma un partito che raccoglie quasi la metà del consenso in una Regione tra le più avanzate in
Europa ha responsabilità particolari. Soprattutto quando si tratta del partito che, a cominciare dalla
maggioranza degasperiana prima, dorotea poi, ha sostenuto per 40 anni lo spontaneismo dell’economia
diffusa fino a identificarsi in esso, anzi teorizzando a posteriori quale «modello veneto».
Fracanzani ha corso da solo e ha creduto di farcela da solo, issato «sulle baionette romane» come le
chiamano i dorotei veneti, senza tenere conto della realtà. E questa nel Veneto è ancora dorotea, sia
pure in crisi nel ricambio di uomini e troppe volte appiattita sulla estenuata mediazione. La sua assenza
dal Goria 1 ne segnala la decadenza.
Bernini tocca il tasto decisivo quando sostiene che la Dc veneta non deve più andare a Roma a
elemosinare ciò che le spetta, ma deve piazzarsi dove si decide. E’ un disegno di potere che prende atto
della situazione: se la partitocrazia fa legge, bisogna occupare il cuore dei partiti a Roma. I postulanti di
provincia, tutti in ordine sparso magari a barattare mancati ministri con sottosegretari , contano sempre
meno.

Se per il leader del «fu Bisaglia» il progetto non potrà che realizzarsi a patto di un ruolo di maggior
calibro nella direzione nazionale, la frustrazione della Dc veneta rilancia indirettamente una istanza
sempre più diffusa, non riconducibile ai partiti e che non va accorpata alla protesta e al folkore della
Liga. L’istanza dell’autonomia, del peso politico della Regione, di una omologazione del Veneto al
Friuli-Venezia Giulia e al Trentino, in un’area sempre più integrata e metropolitana come il Nord-Est.
Visto che conta soltanto il puro potere, che almeno lo si organizzi al meglio.

agosto 1987