1985 Maggio 31 La grande indifferenza

1985 Maggio 31 – La grande indifferenza

La morte che nasce dallo sport fa più impressione perché non ha movente, né il macabro fascino della
teoria della violenza né l’irrefutabile probabilità che ogni vicenda dell’uomo possa e/o debba
degenerare. Quando lo sport cova l’uovo della morte, ci scippa la pausa nello struggimento del vivere.
Se nulla è più effimero e tutto diventa vertigine, che ne sarà del nostro sacrosanto diritto a ritrarre di
tanto in tanto il piede dall’acceleratore dell’esistenza?
La polizia belga andrebbe imputata di favoreggiamento; i “rossi” inglesi interdetti per anni dai
pubblici esercizi di football. Le responsabilità esistono e nessuno si è tirato indietro nel denunciarle,
ma le 41 vite vendute alla nevrosi del tifo di massa meritano mea culpa più scavati.
C’è un costume da rifare, una mentalità da cambiare, una cultura da reperire. In un mondo di
corporazioni e sette, anche lo sport ha coltivato la sua riserva di caccia, chiamandosi fuori ogni volta
che la violenza ha varcato il cancello di uno stadio o lambito i suoi botteghini. La grande macchina
organizzativa dello sport non dipende più da un valore immateriale, ma dai diritti televisivi, dagli
orari della mondovisione, dagli investimenti degli sponsor, dal budget dello spettacolo.
Questo sport non può più fermarsi perché è prigioniero del suo successo e dei suoi satelliti: potrebbe
persino esibirsi a porte chiuse, senza pubblico, poiché ciò che conta non è più il piccolo mondo antico
di hurrà bestemmie e baruffe che fiatava tra spettatori e attori; oggi lo sport di massa appartiene
all’etere, è un telecomando a colori, il titolo alto una spanna, l’appassionato fattosi ultrà. L’involucro
ha soffocato il contenuto con l’illusione di un cellophane più bello della seta.
Proprio a Bruxelles, proprio la sera del massacro, nemmeno il cosiddetto “stile Juve” ha potuto
sopravvivere o dare segni di resistenza alla macchina dello sport agnostico, da nulla turbato se non
dai meri risultati tecnici. Con 41 cadaveri uno dietro l’altro; con la cavalleria sulla pista; con tratti di
recinzione a brandelli; con incursioni di teppisti a pochi passi dal prato verde, tutti ritenevano che non
dovesse esserci partita o che al massimo si dovesse giocare per precauzionale finzione.
No, lo sport del “la vita continua”, lo sport che non riconosce quanto accade a una spanna dalla propria
area di rigore, ha fatto i suoi giochi e ha fatto festa, baci, abbracci, giri di campo, osanna, caroselli.
Quel gol della Juve sarebbe dovuto diventare un minuto di silenzio, una vittoria semmai esercitata
con mestizia, uno stop per dire basta, per rivendicare il prevalere dello sport sul tifo, per gridare in
tutti i canali in onda al mondo che non esiste oasi consentita all’omicidio. Nulla.
Quello di Bruxelles non è stato un incidente e tutti avevamo l’occasione per fermare almeno dentro
di noi i nuovi barbari. La festa della smemoratezza non ha fatto che ratificare l’aberrazione di uno
sport che non è della Juve o di altri ma di un’intera sottocultura.
Il più serio di tutti è stato Renzo Arbore che ha rifiutato di far ridere quando c’era solo da piangere.
L‘apocalisse quotidiana non è la violenza, ma l’indifferenza della società ad essa. E fu subito festa.