1980 Olimpiade di Mosca. Il trionfo del più brutto

1980 Olimpiadi Mosca

Il trionfo del più brutto

Dall’inviato
MOSCA — La morte aveva un volto ed era quello di Yifter, il Viren negro, lo etiope che a trentasei
anni ha vinto diecimila e cinquemila metri. Dall’ultimissima curva del cinquemila è uscito con una
terribile smorfia di sofferenza, uno strato di pelle sudata a coprirgli appena tutti gli angoli del
teschio.

E’ l’atleta più brutto dell’olimpiade. Piccolo, spigoso, stortignaccolo, pelato fino a metà testa. Si
fa fatica ad immaginarlo sul podio che fu di Viren, la betulla finlandese che per ritrovare freschezza
si sottopone alla pioggia di globuli rossi, sangue e boschi.

Yifter è l’altipiano africano, la morbida solitudine degli etiopi, vagheggiata in un misto di sogno
biblico e di marijuana da Bob Marley, il re del reggae. Il reggae di Yifter è la cadenza. Fidia non
avrebbe saputo da dove cominciare dovendogli scolpire una statua per il Partenone: in Yifter il
fascino del fondo sta tutto in una resistenza tragica. Questa sì greco-antica, di maschera da teatro
epico.

Il più brutto dell’olimpiade ha vinto tutto quanto poteva vincere. Il più bello ha perso tutto quanto
poteva perdere, l’oro e il primato del mondo: Jacek Wszola, l’apollo polacco del salto in alto, si è
fermato a 2 e 31, quattro centimetri sotto il suo record.

La brezza del tramonto gli scuoteva i lunghi capelli biondi da arcangelo. Portava una polsiera
con i colori di Polonia, un anello, due collane hippy. C’era mare azzurro nel suo sguardo, un volto
hollywoodiano, un profilo di efebo che sconvolge le ragazzine.

Quando progrediva nelle ascensioni, non sparava come gli altri i pugni al cielo: allargava le
braccia, come un airone che plana. Suo allenatore è il padre, che aspettava una spinta da oro. Ma
l’airone era braccato da un tedesco dell’Est, rapato corto, l’incudine timbrata sul petto, una mascella
innervata di ghisa. Gerd Wessig aveva l’ascensore, ieri sera, riuscendo a salire fino all’attico di se
stesso: 2,36 mondiale!

L’atletica leggera ha salutato così Mosca ’80, fascinosa come sempre, mentre i teleschermi
replicavano decine di volte l’ultima faccia di Wszola, l’apollo al quale l’argento dava soltanto
tristezza, documento della sconfitta.

In un’orgia di staffette dove i tedeschi dell’Est, i più pianificati e collettivisti d’Europa,
sbagliavano il gesto più collettivo, che è il passaggio del testimone, l’atletica ha chiuso esaltandosi
nel mezzofondo, cuore della corsa, tra sprint e resistenza.

Sui 1500 del due sessi, l’inglese Coe e la sovietica Kazankina non hanno avuto avversari.
Nemmeno l’altro inglese, Ovett, lo è stato per Coe, che ha fatto balzare in piedi nove giornalisti
britannici su dieci, tutti « coeisti », con un tifo preso a prestito dal football.

Il mezzofondo ha parlato a Mosca anche il dialetto vicentino! Tra i maschi con Vittorio
Fontanella di Chiampo, tra le femmine con Gabriella Dorio di Cavazzale. Quinto con Fontanella;
quarta Dorio a tempo di primato italiano.

Gabriella ha lasciato alle spalle tedesche, russe, rumene. Forse avrebbe perfino potuto prendere il
bronzo, con un rush finale più anticipato, ma Gabriella ha 23 anni, i capelli al vento, la possibilità di
migliorarsi ancora, dicono che valga addirittura due secondi in meno. E’ la più carina del
mezzofondo e i tecnici si augurano che abbia anche la pazienza di continuare ad allenarsi duramente

per essere a Los Angeles tra le eredi della Kazankina, trentenne, ossuta, il sorriso che le appare
scarno e rado come una stella alpina.

Il Coni non lo voleva nemmeno portare a Mosca Fontanella. C’è stata una mezza baruffa, finché
la Federazione di atletica ha insistito: ed eccolo qua quinto, questo professore di educazione fisica
che prese gusto a correre prima in seminario, poi nelle campestri. Così come il marciatore d’oro
Damilano, lo ha preparato un fisiologo di Ferrara, il prof. Francesco Conconi, specialista in test e
dosaggi atletici. Un risultato anche suo.

Mentre la maratona consumava gli ultimi minuti dei suoi 42 chilometri e 195 metri, Pietro
Mennea ha corso l’ultima frazione della 4×400 portando alla Italia il bronzo e correndo i suoi 400
metri in 44″ e 87, il miglior tempo dei trentadue concorrenti. « Nessuno sa chi è Mennea »,
mormora di sovente Pietro di Barletta: come non dargli ragione? Dai 100, ai 200, ai 400 della
staffetta nessuno ha fatto una velocità media pari alla sua. Scendeva la sera quando un tedesco di
origine polacca, Cierpinski, entrava allo stadio Lenin alla media di venti all’ora abbondanti. La
maratona era sua, dopo esser passato dal Cremlino all’arco Gorki, da via Puskin alla Collina dei
passeri, fino alla stazione per Kiev.

Mancavano i tre migliori, gli americani, e due studiosi hanno recentemente pubblicato
un’indagine secondo la quale Filippide e la sua folle corsa da Maratona ad Atene non sono mai
esistiti. Mera invenzione di greci decaduti per ritrovare nei miti il vigore dei secoli d’oro.

Ma tutto questo Valdemar Cierpinski non lo sapeva proprio. Era lui Filippide, a Mosca, e questo
gli bastava. Se anche era fasulla quella antica, era tutta vera la sua leggenda di sovrumana fatica.
L’atletica saluta.