1980 Olimpiade di Mosca. Da Milano

1980 – Olimpiade di Mosca – Da Milano

La popolazione italiana è, se non erro, sui 54 milioni; esattamente 55 milioni sono i sovietici che si
dedicano regolarmente a qualche sport! Di questi, 5 milioni sono arbitri, come dire cinque volte tanto
tutti tesserati del calcio italiano, il nostro sport più popolare.
Ogni volta che t’imbatti nelle sterminate cifre della realtà sovietica, la reazione è di smarrimento. Razze
e superficie ne fanno un “pianeta”, e presto la Mongolia potrebbe diventare la sedicesima delle
repubbliche dell’Urss. L’armata Rossa è la più massiccia al mondo. L’Hotel Rossia, a seimila camere.
Pensate alle medaglie olimpiche: dal 1952 al 1976, l’Urss ne ha vinte 683, di cui 258 d’oro. Ha già
superato gli Usa che, nello stesso periodo, ne hanno prese 606, di cui 254 d’oro.
Si è superpotenze in niente o in tutto, compresi missili e atleti, ed èanche per questo che le Olimpiadi
del dopoguerra si sono arricchite di un nuovo sentimento: la rivolta. Dei satelliti sui pianeti,
dell’imponderabile sulla grigia legge dei grandi numeri. È un sentimento anti-colonialista: Il fronte
all’imperialismo dello sport, siamo un po’ tutti Terzo Mondo.
La rivolta è dei 19 milioni di tedeschi orientali che, con il loro laboratorio di exploit, infastidiscono
l’Ulss più degli jankee. La rivolta ed è giamaicano Weller, primo ciclista di colore a vincere l’altro
giorno una medaglia olimpica. La rivolta dei cinquanta italiani venuti dalla Toscana che, al piattello
d’oro di Giovanetti, hanno alzato il tricolore, cantato “Fratelli d’Italia” e pianto sul serio, mica tanto per
dire. Era quella la cinquantesima medaglia d’oro dell’Italia, a cominciare da Helsinki nel 1952, l’anno
dell’esordio olimpico dei russi.
Ci sono due tipi di gioia: di chi si vede ratificata la propria superiorità di bandiera e di chi vede infranto
il monopolio altrui. Il primo sentimento di potenza; il secondo di trasgressione, equivalente infantile
della lingua fuori e delle dispettose boccacce. Dice una poesia del poeta sovietico Evtusenko: “Colui
che non conosce il prezzo della felicità, non potrà mai essere felice”. Il faccia ai colossi; di fronte alle
siberiane proiezioni dell’Urss; di fronte ai distanti fantasmi di Usa, Cina, Giappone e Germania, il
prezzo del Terzo mondo dello sport è alto, taglieggiato, rateale.
Quando siamo felici, lo siamo dunque sul serio, forse di più, perché è un’emozione in rivolta, povera,
senza echi stellari. Le nostre medaglie, come bronzo del giamaicano Weller nel ciclismo, non
conoscono supremazie. Ci si campa sopra per dimostrare che al mondo le cifre non sono tutto: Ieri
Maurizio Da Milano ha marciato da solo, una leggenda neutrale, per nessun blocco.