1980 novembre 23 La questione morale e il calcio nostro quotidiano

1980 novembre 23 – La questione morale e il calcio nostro quotidiano

C’è un parallelismo impressionante tra crisi politica del nostro Bel Paese e crisi del
calcio. Anzi, il calcio ha avuto il ruolo di battistrada. Soltanto alcuni mesi or sono
sembrava che parlamentari, pretori, finanzieri e commentatori non avessero altro
ordine del giorno che non fosse il calcio-scommesse. Ora non se ne parla
nemmeno più; il processo penale di Roma trova a fatica spazio nelle pagine dei
giornali: scandalo scaccia scandalo. Le scommesse danno strada a ben altri
saccheggiatori della vita pubblica, generali, alti magistrati, politici, affaristi d’alto
bordo, pescecani della corruzione.
Non è una novità: il calcio inquadra due milioni di persone, mobilita abitualmente
l’interesse di quindici milioni d’italiani, con punte di gradimento calcolate dalla
Rai-Tv sui trenta milioni. Uno sport che è impossibile che viva di vita propria in
un Paese di 54 milioni di abitanti: beve come una spugna la vita sociale del Paese
e riversa in essa i suoi miti. Anche perché, per usare una felice espressione usata
giorni fa ad Asolo da Gualtiero Zanetti, «troppi dirigenti si servono dello sport,
invece di servirlo». Ne fanno investimento pubblicitario sganciato da qualsiasi
altro valore.
Nel calcio e altrove è diventata d’attualità la «questione morale». Ma il dramma
sta proprio qui! Che in democrazia e nello sport ci si accorga della «questione
morale» a tempo pressoché scaduto o in corner, quasi fosse un appiglio
d’emergenza, un’ultima spiaggia, una legge speciale e non piuttosto un metro
istituzionale, un traguardo da perseguire sempre nonostante le mille tentazioni di
una società mafiosa e avida.
«La democrazia o è morale o non è», ha ricordato Geno Pampaloni sul Tempo di
Roma. Parafrasiamolo, il calcio o è pulito o non è, diventa bisca, azzardo,
manovra, loggia. Nella migliore delle ipotesi si prosciuga quanto la lisca di un
pesce morto e si tramuta tutto in schedina del Toto: il pronostico come fine, lo
sport come mezzo, rovesciando ogni precedenza.
Poiché la questione morale arriva con anni di ritardo sui minimi del pudore
pubblico, si corre ovunque il pericolo che se ne faccia una moda. Tutti insieme sul
podio a fare i moralisti; tutti qui a riempire l’aria di de profundis e di ricette,
d’indignazione e di «non se ne può più». Si corre il rischio di svuotare qualche
cassetto, lasciando intatto l’armadio e la mentalità che ci campa dentro. C’è il
pericolo che dal «basta» non si riesca a passare mai al «che fare?».
C’è un altro rischio, davvero a braccetto in politica e nel calcio, che fa
sommariamente separare il Potere dal Paese, i dirigenti dalla base, la vita pubblica
dalla vita privata, come se chi sta nella stanza dei bottoni arrivasse da Marte e non
da liberissime urne, come se noi stessi, presi uno per uno, fossimo tutti cittadini di
specchiata virtù, allergici ai favori e ai privilegi, ineccepibili nel dichiarare i
redditi, capaci di sacrificare il profitto al bene sociale, pronti a sputare sulle lire
pur si rispettare tutti i codici, scritti e orali.
É questa una separazione ingenua, demagogica, di pochi scrupoli. Mi fa venire in
mente un collega che, rispondendo ad una obiezione sul qualunquismo di una
certa sua posizione su Bearzot, rispondeva: «Ma piace al pubblico!».
La realtà è meno semplice, più sfaccettata, persino peggiore. Lo scandalo-
scommesse è stato uno scandalo d’élite e tuttavia i valori sono scaduti proprio alla
base, tra i dilettanti, dove corre troppo denaro, e con il denaro lo sport untuoso, la
gente avida, la voglia di ottenere il risultato a ogni costo perché perdere costa
troppo anche in prima categoria dove la gestione di un campionato vale decine di

milioni.
É un gioco da furbi e da incolti prendersela con il Potere dei Grandi Arbitri o dei
Grandi Dirigenti, quando è una base articolatissima e opaca a fare da sostegno a
quel potere e, soprattutto, a praticare in formato ridotto gli stessi metodi, una sorta
di piccola compromissione di massa. Tanto di massa che, quando provi a
contestarla nel calcio come nel ciclismo, t’imbatti in sguardi stupefatti, di gente
che non afferra, proprio non dà l’aria di rendersi conto del confine tra lecito e
illecito.
La riforma dl Potere non passa fingendo di considerarlo un corpo estraneo e
separato della società. Si può cambiare soltanto rifondando la società. E provando
ognuno di noi, uomo della strada o elettore, sportivo o contribuente, a rileggere la
partecipazione sociale attraverso meccanismi meno rapinosi, meno utilitaristici,
meno di resa economica, i meccanismi che danno spessore a quella che in
Germania il papa ha l’altro giorno chiamato e condannato come «vita a prova»,
senza tenuta.
Il calcio oggi ha bisogno di parecchie cose. Di vivai curati con più passione (l’ha
detto Mario Corso) e con ridotto spirito speculativo. Di tecnici che (l’ha detto
Sandro Gomba) «insegnino meglio, di più, più a lungo». Di giocatori che (l’ha
detto Sergio Campana) badino alla salute dell’azienda-calcio prima che al
massimo da arraffare. Di una legge che riconosca la mancanza di fine di lucro alle
SpA; di un utilizzo serio della sponsorizzazione; di un’organizzazione arbitrale
autonoma e non più manovrata dalla Federazione; di dirigenti più disposti a
«servire» il calcio che a «servirsene».
Bene o male, l’Italia è tra i primi sette Paesi industrializzati; ha avuto un
incremento di reddito secondo soltanto a quello del Giappone. Stando al calcio è
quarta al mondo e in Europa: un calcio così in un Paese così, se vuole restare nel
suo circuito, deve uscire dal pantano e decollare, ma guardando ai migliori
esempi, non al terzo mondo. Ha detto l’economista Andreatta: «I nostri punti di
riferimento debbono essere gli Stati Uniti o la Germania, non la Corea».
Ritornano le vite parallele tra società e sport popolare, con una sola questione morale:
isolare il «marcio» partendo dal basso. Se non cambia l’uomo, come può migliorare il
Potere degli uomini?